Argentina, quel che la notte racconta al giorno

Quello che emerge dalla mostra del PAC di Milano, “Argentina. Quello che la notte racconta al giorno” (aperta fino all’11 febbraio 2024) è un dato quasi incontrovertibile e cioè che le arti visive degli ultimi cinquant’anni hanno operato con strumenti simili, attraverso linguaggi quasi omologati e con risultati piuttosto prevedibili. Questo non significa che la mostra non presenti opere interessanti e anche suggestive, ma è certo che, se l’aspettativa del visitatore fosse quella di scoprire “nuovi mondi” (ma anche nuovi metodi) essa andrebbe sicuramente disattesa. Non va certo sottovalutato il fatto che, come dice un famoso detto popolare, “I messicani discendono dagli atzechi, i peruviani dagli incas e gli argentini dalle navi”, come conseguenza delle tante ondate migratorie giunte in quel lontano paese, provenienti soprattutto dalla vecchia Europa: queste non possono non aver influito sugli sviluppi di correnti artistiche, movimenti, idee di tipo “occidentale” (paradosso dei paradossi, poiché l’Europa è in realtà geograficamente ad Est rispetto all’Argentina).

La mostra soffre inoltre, a mio avviso, anche di una certa volontà riepilogatoria ed antologica che la rendono un po’ dispersiva. Vale comunque la pena di dare un’occhiata a qualcuna delle opere esposte tra sculture, installazioni, video e performance. Il titolo è un omaggio all’omonimo romanzo dello scrittore argentino di origini italiane Héctor Bianciotti e rimanda alla dicotomia tra l’inquietante e il luminoso, evocata anche nelle opere in mostra, metafora di una storia che il giorno non conosce e che la notte deve raccontare (anche se questa idea dell’arte “notturna” ed infera non è propriamente nuova). Se andassimo alla ricerca di un filo conduttore che lega tra esse almeno alcune opere, questo potrebbe essere certamente individuabile nel tema della violenza, spesso tema centrale nella storia del paese, anche come allusivo riferimento del rapporto distruttivo dell’uomo verso il proprio habitat.

Notevoli a questo proposito, una serie di opere a cominciare dal doppio video del 2016 di Adriana Bustos, “Ceremonia Nacional”, dove su due schermi affiancati scorrono le immagini delle Olimpiadi di Berlino del 1936 e della cerimonia di apertura dei mondiali di calcio del 1978 tenutisi proprio in Argentina. Impossibile non notare il tono roboante e trionfalistico dei due speaker, che altro non erano che la grancassa mediatico-sportiva di due dittatori, Hitler e Videla. Anche l’imponente installazione di Eduardo Basualdo intitolata “Nuestra estella se agotò” sembra voler alludere ad una forza bruta, questa volta della natura, che sembra ribellarsi alle scellerate azioni dell’uomo, dove una teoria di corpi è seppellita sotto una coltre bituminosa che ricorda la colata lavica che seppellì Pompei e i suoi abitanti.

Poco appariscente, ma piuttosto pregna di senso, è l’opera concettuale di Cristina Piffer del 2010 dal titolo “Doscientos pesos fuertes”, una lastra di cristallo fissata al muro che supporta una serigrafia su vetro, impressa con del pigmento di sangue taurino, e che riproduce un branco di tori che pascola insieme ad un gregge di pecore: opera finemente allusiva e di grande finezza. Qui la violenza è del tutto simbolica e sta proprio nel materiale con cui è realizzata l’opera. Passando al mezzanino del PAC, ecco Graciela Sacco con la magnifica installazione fotografica “Bocanada” ovvero “respiro”, (1993) una lunga fila di fotografie che ritraggono primi piani di bocche su pannelli esposti illegalmente su muri ed edifici nelle strade delle città di tutto il mondo come Buenos Aires, San Paolo o New York soprattutto in occasione di campagne elettorali.

Provocatorie e inquietanti, queste bocche aperte sembrano invadere il paesaggio urbano, interferendo con i messaggi dei manifesti delle campagne politiche e con altre forme di pubblicità. Comunicando sentimenti come paura, indignazione o shock, queste immagini hanno un forte significato politico e sociale. Per l’artista si riferiscono ai problemi della fame e della carestia, ma anche più in generale all’espressione di bisogni impellenti o all’incapacità di comunicare pensieri e desideri.

Infine non si può non citare un’opera concettuale, ma molto spettacolare come “Ashes to Ashes” di Juan Sorrentino, una serie di pezzi di carbone trascinati sulle pareti da un ingranaggio meccanico che ne sfarina le superfici, lasciandone una traccia sul muro e della polvere per terra: cenere alla cenere appunto, un po’ come le nostre vite, che lascino tracce o meno. Infine vorrei citare “Volare con Pacha nell’Aerocene”, interessantissimo video di Tomàs Saraceno (2017) che avevo avuto modo di vedere nello straordinario Festival di “Nu Arts & Community” a Novara e che, ad una seconda visione, mi sembra essere, ancor di più, uno straordinario e poetico documento di denuncia ambientale per la salvezza del deserto di Atacama, messo in pericolo a causa delle estrazioni di litio. Sempre meritevole il direttore del PAC Domenico Piraina nel saper tener viva l’attenzione sulla produzione artistica dell’America latino-americana e di altri paesi extra europei.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Argentina, quel che la notte racconta al giorno

Quello che emerge dalla mostra del PAC di Milano, "Argentina. Quello che la notte racconta al giorno" (aperta fino all’11 febbraio 2024) è un dato quasi incontrovertibile e cioè che le arti visive degli ultimi cinquant'anni hanno operato con strumenti simili, attraverso linguaggi quasi omologati e con risultati piuttosto prevedibili. Questo non significa che la mostra non presenti opere interessanti e anche suggestive, ma è certo che, se l'aspettativa del visitatore fosse quella di scoprire "nuovi mondi" (ma anche nuovi metodi) essa andrebbe sicuramente disattesa. Non va certo sottovalutato il fatto che, come dice un famoso detto popolare, "I messicani discendono dagli atzechi, i peruviani dagli incas e gli argentini dalle navi", come conseguenza delle tante ondate migratorie giunte in quel lontano paese, provenienti soprattutto dalla vecchia Europa: queste non possono non aver influito sugli sviluppi di correnti artistiche, movimenti, idee di tipo "occidentale" (paradosso dei paradossi, poiché l'Europa è in realtà geograficamente ad Est rispetto all’Argentina).

La mostra soffre inoltre, a mio avviso, anche di una certa volontà riepilogatoria ed antologica che la rendono un po' dispersiva. Vale comunque la pena di dare un'occhiata a qualcuna delle opere esposte tra sculture, installazioni, video e performance. Il titolo è un omaggio all’omonimo romanzo dello scrittore argentino di origini italiane Héctor Bianciotti e rimanda alla dicotomia tra l’inquietante e il luminoso, evocata anche nelle opere in mostra, metafora di una storia che il giorno non conosce e che la notte deve raccontare (anche se questa idea dell'arte "notturna" ed infera non è propriamente nuova). Se andassimo alla ricerca di un filo conduttore che lega tra esse almeno alcune opere, questo potrebbe essere certamente individuabile nel tema della violenza, spesso tema centrale nella storia del paese, anche come allusivo riferimento del rapporto distruttivo dell’uomo verso il proprio habitat.

Notevoli a questo proposito, una serie di opere a cominciare dal doppio video del 2016 di Adriana Bustos, “Ceremonia Nacional”, dove su due schermi affiancati scorrono le immagini delle Olimpiadi di Berlino del 1936 e della cerimonia di apertura dei mondiali di calcio del 1978 tenutisi proprio in Argentina. Impossibile non notare il tono roboante e trionfalistico dei due speaker, che altro non erano che la grancassa mediatico-sportiva di due dittatori, Hitler e Videla. Anche l’imponente installazione di Eduardo Basualdo intitolata “Nuestra estella se agotò” sembra voler alludere ad una forza bruta, questa volta della natura, che sembra ribellarsi alle scellerate azioni dell’uomo, dove una teoria di corpi è seppellita sotto una coltre bituminosa che ricorda la colata lavica che seppellì Pompei e i suoi abitanti.

Poco appariscente, ma piuttosto pregna di senso, è l’opera concettuale di Cristina Piffer del 2010 dal titolo “Doscientos pesos fuertes”, una lastra di cristallo fissata al muro che supporta una serigrafia su vetro, impressa con del pigmento di sangue taurino, e che riproduce un branco di tori che pascola insieme ad un gregge di pecore: opera finemente allusiva e di grande finezza. Qui la violenza è del tutto simbolica e sta proprio nel materiale con cui è realizzata l’opera. Passando al mezzanino del PAC, ecco Graciela Sacco con la magnifica installazione fotografica “Bocanada” ovvero “respiro”, (1993) una lunga fila di fotografie che ritraggono primi piani di bocche su pannelli esposti illegalmente su muri ed edifici nelle strade delle città di tutto il mondo come Buenos Aires, San Paolo o New York soprattutto in occasione di campagne elettorali.

Provocatorie e inquietanti, queste bocche aperte sembrano invadere il paesaggio urbano, interferendo con i messaggi dei manifesti delle campagne politiche e con altre forme di pubblicità. Comunicando sentimenti come paura, indignazione o shock, queste immagini hanno un forte significato politico e sociale. Per l'artista si riferiscono ai problemi della fame e della carestia, ma anche più in generale all'espressione di bisogni impellenti o all'incapacità di comunicare pensieri e desideri.

Infine non si può non citare un’opera concettuale, ma molto spettacolare come “Ashes to Ashes” di Juan Sorrentino, una serie di pezzi di carbone trascinati sulle pareti da un ingranaggio meccanico che ne sfarina le superfici, lasciandone una traccia sul muro e della polvere per terra: cenere alla cenere appunto, un po’ come le nostre vite, che lascino tracce o meno. Infine vorrei citare “Volare con Pacha nell’Aerocene”, interessantissimo video di Tomàs Saraceno (2017) che avevo avuto modo di vedere nello straordinario Festival di “Nu Arts & Community” a Novara e che, ad una seconda visione, mi sembra essere, ancor di più, uno straordinario e poetico documento di denuncia ambientale per la salvezza del deserto di Atacama, messo in pericolo a causa delle estrazioni di litio. Sempre meritevole il direttore del PAC Domenico Piraina nel saper tener viva l’attenzione sulla produzione artistica dell’America latino-americana e di altri paesi extra europei.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.