Dalla rubrica Chez Mimich

Wes Anderson è diventato pazzo e “Asteroid City” ne è la prova. Però anche Vincent Van Gogh era pazzo, eppure… Cominciamo dall’inizio, visto che nel film i piani temporali sono già volutamente mescolati. “Asteroid City” è una pièce teatrale scritta da Bryan Carston e trasposta da Adrien Brody, per la televisione americana, negli anni Cinquanta. E Wes Anderson decide di mantenere i due piani narrativi e di aggiungerne un terzo, quello del cinema. Asteroid City è una località nel deserto del Nevada, nata intorno ad un cratere formatosi per l’impatto avvenuto anni prima di un asteroide. In quel luogo remoto si dànno convegno, per un premio, un gruppo di geni in erba della ricerca scientifica e tecnologica, detti Junior Stargazer, oltre ad una serie di strambi personaggi, come un nonno in ansia per la nipotina, una attrice egocentrica e paranoica, una scienziata pazzoide ed autodistruttiva, un alieno sceso a recuperare un frammento dell’asteroide che aveva fatto della località nel deserto un centro di attrazione.

L’arrivo dell’extraterrestre però fa scattare una quarantena precauzionale, nella quale le storie dei malcapitati protagonisti si intrecciano e si complicano. Ma è ovvio che, per quanto la trama e soprattutto l’ordito della storia siano piuttosto originali, non è certo per questo che il film di Wes Anderson resterà negli annali della storia del cinema. Questo è un film dove a raccontare i fatti sono soprattutto la luce e il colore. La luce spietata del deserto del Nevada e il color-Barbie sembrano ormai la cifra stilistica degli schermi cinematografici degli ultimi mesi e, soprattutto, si adattano magnificamente a raccontare un America senza chiaroscuro, dove un sordo manicheismo assegnava ad ogni personaggio la sua casella che poteva trovarsi nel campo dei buoni o dei cattivi. Tutto si svolge come in un enorme cartellone pubblicitario della “Amrican Way of life” e tutto avviene sempre alla luce di un sole implacabile e finto che rende il film simile ad un cartone animato.

È un film costruito sul vuoto del deserto, riempito dal vuoto interiore dei personaggi che sono a loro volta vuoti o meglio “svuotati” di sentimenti e psicologie e modellati sui cliché televisivi americani degli anni Cinquanta. La storia sembra debba essere raccontata come ci si aspetta che il pubblico di una trasmissione televisiva degli anni Cinquanta voglia vederla rappresentata. Il film di Wes Anderson, contrariamente a quanto affermato da qualche critico, non è affatto un film “calligrafico”, anche se si sa essere quello lo stile del raccontare per immagini del regista-hypster per eccellenza del cinema statunitense.

Questa volta però c’è di più, “Asteroid City” è un film sottilmente morale che mette alla berlina una certa America edulcorata, ingenua e, come già accennato, lo fa su un triplo registro narrativo, quello della rappresentazione dell’opera teatrale, quello della trasmissione radiofonica che si occupa del fatto e quello della vicenda stessa, nel momento del suo svolgimento cinematografico. Il cast, visto l’argomento, non poteva che essere “stellare”, da Tom Hanks a Scarlett Johansson, da Willem Dafoe a Tilde Swinton.

Si sa però che Wes Anderson fa parte di quella categoria di registi che si ama o si odia. Per chi lo ama, come chi vi scrive, “Asteroid City” è certamente il miglior film del regista, almeno fino ad oggi.

Chi lo odia doveva smettere di leggere prima…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Asteroid City

Dalla rubrica Chez Mimich

Wes Anderson è diventato pazzo e “Asteroid City” ne è la prova. Però anche Vincent Van Gogh era pazzo, eppure… Cominciamo dall’inizio, visto che nel film i piani temporali sono già volutamente mescolati. “Asteroid City” è una pièce teatrale scritta da Bryan Carston e trasposta da Adrien Brody, per la televisione americana, negli anni Cinquanta. E Wes Anderson decide di mantenere i due piani narrativi e di aggiungerne un terzo, quello del cinema. Asteroid City è una località nel deserto del Nevada, nata intorno ad un cratere formatosi per l’impatto avvenuto anni prima di un asteroide. In quel luogo remoto si dànno convegno, per un premio, un gruppo di geni in erba della ricerca scientifica e tecnologica, detti Junior Stargazer, oltre ad una serie di strambi personaggi, come un nonno in ansia per la nipotina, una attrice egocentrica e paranoica, una scienziata pazzoide ed autodistruttiva, un alieno sceso a recuperare un frammento dell’asteroide che aveva fatto della località nel deserto un centro di attrazione.

L’arrivo dell’extraterrestre però fa scattare una quarantena precauzionale, nella quale le storie dei malcapitati protagonisti si intrecciano e si complicano. Ma è ovvio che, per quanto la trama e soprattutto l’ordito della storia siano piuttosto originali, non è certo per questo che il film di Wes Anderson resterà negli annali della storia del cinema. Questo è un film dove a raccontare i fatti sono soprattutto la luce e il colore. La luce spietata del deserto del Nevada e il color-Barbie sembrano ormai la cifra stilistica degli schermi cinematografici degli ultimi mesi e, soprattutto, si adattano magnificamente a raccontare un America senza chiaroscuro, dove un sordo manicheismo assegnava ad ogni personaggio la sua casella che poteva trovarsi nel campo dei buoni o dei cattivi. Tutto si svolge come in un enorme cartellone pubblicitario della “Amrican Way of life” e tutto avviene sempre alla luce di un sole implacabile e finto che rende il film simile ad un cartone animato.

È un film costruito sul vuoto del deserto, riempito dal vuoto interiore dei personaggi che sono a loro volta vuoti o meglio “svuotati” di sentimenti e psicologie e modellati sui cliché televisivi americani degli anni Cinquanta. La storia sembra debba essere raccontata come ci si aspetta che il pubblico di una trasmissione televisiva degli anni Cinquanta voglia vederla rappresentata. Il film di Wes Anderson, contrariamente a quanto affermato da qualche critico, non è affatto un film “calligrafico”, anche se si sa essere quello lo stile del raccontare per immagini del regista-hypster per eccellenza del cinema statunitense.

Questa volta però c’è di più, “Asteroid City” è un film sottilmente morale che mette alla berlina una certa America edulcorata, ingenua e, come già accennato, lo fa su un triplo registro narrativo, quello della rappresentazione dell’opera teatrale, quello della trasmissione radiofonica che si occupa del fatto e quello della vicenda stessa, nel momento del suo svolgimento cinematografico. Il cast, visto l’argomento, non poteva che essere “stellare”, da Tom Hanks a Scarlett Johansson, da Willem Dafoe a Tilde Swinton.

Si sa però che Wes Anderson fa parte di quella categoria di registi che si ama o si odia. Per chi lo ama, come chi vi scrive, “Asteroid City” è certamente il miglior film del regista, almeno fino ad oggi.

Chi lo odia doveva smettere di leggere prima…

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.