Basquiat x Warhol a Quatre Mains

Dalla rubrica Chez Mimich

Quando scrivo cerco di non avere pregiudizi, anzi cerco di non averne mai, ma non sempre ci riesco. Qualche volta, però, i pregiudizi non sono tali, nel senso che risultano veri e propri giudizi che, a differenza dei pregiudizi, sono motivati da conoscenze acquisite, documentazioni, fatti, letture. Ho sempre letto molto su Andy Warhol che, come per milioni di altre persone, è stato una leggenda se non proprio un mito della mia gioventù. Ho letto molto meno su Jean-Michel Basquiat, ma tra i pochi libri e le pubblicazioni che ho letto su di lui c’è stato anche il fondamentale testo di Phoebe Hoban dal titolo “Basquiat vita lucente e breve di un genio dell’arte” (edito in Italia da Castelvecchi). Non posso negare di essere stato accompagnato dalle lucidi analisi di Hoban mentre visitavo, la scorsa settimana, la roboante mostra della Fondation Vuitton di Parigi (curata da Suzanne Pagé):“Basquiat X Warhol. À quatre mains”. Dal 1984 al 1985 i due artisti realizzano, congiuntamente, una serie di 160 tele per la maggior parte di grandi dimensioni. Di questo rapporto a due tra l’incontrastato re della Pop Art e il giovane rampollo dell’arte contemporanea di quegli anni, fu testimone un altro grande dell’arte newyorkese, Keith Haring che per questo intenso rapporto parlerà di “une conversation advenant par la peinture, à la place des mots”. Di questo sodalizio fecero parte, a vario titolo, anche l’artista della “Transavanguardia” italiana (creatura di Achille Bonito Oliva) Francesco Clemente (molto pregnanti i ritratti dell’artista italiano realizzati da Basquiat) e l’ecclettico gallerista Bruno Bischofberger. La mostra della Vuitton appena conclusa, è certamente una esposizione completa ed esaustiva di quegli anni di euforia post Pop-Art. Tuttavia qualche parola critica sul reale valore di Jean-Michel Basquiat, anche sulla scorta delle vicende raccontate dal libro di Hoban, andrebbero pur scritte. Basquiat fu un artista dirompente per la sua personalità caratteriale, le cui innovazioni formali non furono però poi così eclatanti se depurate da tutto il “glamour” delle vicende newyorkesi, fatte di feste, vernissage, party e, per dirlo con una parola oggi molto in voga, di “eventi”. Basquiat non sarebbe stato un mostro sacro dell’arte senza la bonaria benedizione di Warhol. Personalmente credo che la genialità di Basquiat risieda, in gran parte, nell’aver saputo organizzare un linguaggio pittorico e grafico attorno ad una mondanità latente in cerca di un linguaggio col quale baloccarsi. Qualcosa di nuovo, ma non di troppo nuovo, qualcosa che non richiedesse troppe elaborazioni mentali e che si sposasse, con una certa facilità, con i drink o la musica di Soho o del Village (ma anche con gli esclusivi roof garden di Manhattan), più che con l’avanguardia storica o con le teorie dell’arte. Nulla di male per carità, come ho già scritto altrove, l’arte ha bisogno di una riconoscibilità e in fondo “l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte” (come ricordava il mio professore di estetica all’università, Dino Formaggio). Devo ammettere che molti dei segni finto-primitivi da crew urbana sono gradevolissimi e di grande vitalità, ma lasciano sempre un po’ il retrogusto dell’opportunismo. Tra le opere più apprezzabili le fotografie di Michael Halsband dell’incontro di boxe tra Basquiat e Warhol che, già da quegli anni, sembrano precursori di questo vezzo della sfida coi guantoni che ci riporta ad altre sfide che sono sembrate concretizzarsi in questi giorni tra i giganti dei social. Tra le opere più originali “Ten Punching Bags”, dieci sacchi da pugilato iconicamente effigiati da Warhol con il volto di Cristo nelle pose riprese dall’Ultima Cena leonardesca. Si tenga presente che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, Warhol era credente e l’opera risente certamente della sua visione e sue angosce verso problematiche come il razzismo e la nascente epidemia di AIDS. E’ proprio la dipendenza dalle influenza warholiane a rendere Basquiat convincente sino ad un certo punto, nonostante le parole di Warhol: “Prima disegno e poi dipingo come Jean-Michel. Penso che i dipinti che facciamo insieme siano migliori quando non sai chi ha fatto cosa.” Per rendersi però conto della dipendenza di Basquiat da Warhol basta osservare i continui riferimenti a marchi e loghi, che con Warhol vennero metabolizzati come “Icone Pop”. Insomma, mostra grandiosa, ben allestita, divertente da guardare anche grazie all’allestimento spettacolare di Jean-François Bodin, ma sempre non dimenticando un briciolo di senso critico.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Quando scrivo cerco di non avere pregiudizi, anzi cerco di non averne mai, ma non sempre ci riesco. Qualche volta, però, i pregiudizi non sono tali, nel senso che risultano veri e propri giudizi che, a differenza dei pregiudizi, sono motivati da conoscenze acquisite, documentazioni, fatti, letture. Ho sempre letto molto su Andy Warhol che, come per milioni di altre persone, è stato una leggenda se non proprio un mito della mia gioventù. Ho letto molto meno su Jean-Michel Basquiat, ma tra i pochi libri e le pubblicazioni che ho letto su di lui c’è stato anche il fondamentale testo di Phoebe Hoban dal titolo “Basquiat vita lucente e breve di un genio dell’arte” (edito in Italia da Castelvecchi). Non posso negare di essere stato accompagnato dalle lucidi analisi di Hoban mentre visitavo, la scorsa settimana, la roboante mostra della Fondation Vuitton di Parigi (curata da Suzanne Pagé):“Basquiat X Warhol. À quatre mains”. Dal 1984 al 1985 i due artisti realizzano, congiuntamente, una serie di 160 tele per la maggior parte di grandi dimensioni. Di questo rapporto a due tra l’incontrastato re della Pop Art e il giovane rampollo dell’arte contemporanea di quegli anni, fu testimone un altro grande dell’arte newyorkese, Keith Haring che per questo intenso rapporto parlerà di “une conversation advenant par la peinture, à la place des mots”. Di questo sodalizio fecero parte, a vario titolo, anche l’artista della “Transavanguardia” italiana (creatura di Achille Bonito Oliva) Francesco Clemente (molto pregnanti i ritratti dell’artista italiano realizzati da Basquiat) e l’ecclettico gallerista Bruno Bischofberger. La mostra della Vuitton appena conclusa, è certamente una esposizione completa ed esaustiva di quegli anni di euforia post Pop-Art. Tuttavia qualche parola critica sul reale valore di Jean-Michel Basquiat, anche sulla scorta delle vicende raccontate dal libro di Hoban, andrebbero pur scritte. Basquiat fu un artista dirompente per la sua personalità caratteriale, le cui innovazioni formali non furono però poi così eclatanti se depurate da tutto il “glamour” delle vicende newyorkesi, fatte di feste, vernissage, party e, per dirlo con una parola oggi molto in voga, di “eventi”. Basquiat non sarebbe stato un mostro sacro dell’arte senza la bonaria benedizione di Warhol. Personalmente credo che la genialità di Basquiat risieda, in gran parte, nell’aver saputo organizzare un linguaggio pittorico e grafico attorno ad una mondanità latente in cerca di un linguaggio col quale baloccarsi. Qualcosa di nuovo, ma non di troppo nuovo, qualcosa che non richiedesse troppe elaborazioni mentali e che si sposasse, con una certa facilità, con i drink o la musica di Soho o del Village (ma anche con gli esclusivi roof garden di Manhattan), più che con l’avanguardia storica o con le teorie dell’arte. Nulla di male per carità, come ho già scritto altrove, l’arte ha bisogno di una riconoscibilità e in fondo “l’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte” (come ricordava il mio professore di estetica all’università, Dino Formaggio). Devo ammettere che molti dei segni finto-primitivi da crew urbana sono gradevolissimi e di grande vitalità, ma lasciano sempre un po’ il retrogusto dell’opportunismo. Tra le opere più apprezzabili le fotografie di Michael Halsband dell’incontro di boxe tra Basquiat e Warhol che, già da quegli anni, sembrano precursori di questo vezzo della sfida coi guantoni che ci riporta ad altre sfide che sono sembrate concretizzarsi in questi giorni tra i giganti dei social. Tra le opere più originali “Ten Punching Bags”, dieci sacchi da pugilato iconicamente effigiati da Warhol con il volto di Cristo nelle pose riprese dall’Ultima Cena leonardesca. Si tenga presente che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, Warhol era credente e l’opera risente certamente della sua visione e sue angosce verso problematiche come il razzismo e la nascente epidemia di AIDS. E’ proprio la dipendenza dalle influenza warholiane a rendere Basquiat convincente sino ad un certo punto, nonostante le parole di Warhol: “Prima disegno e poi dipingo come Jean-Michel. Penso che i dipinti che facciamo insieme siano migliori quando non sai chi ha fatto cosa.” Per rendersi però conto della dipendenza di Basquiat da Warhol basta osservare i continui riferimenti a marchi e loghi, che con Warhol vennero metabolizzati come “Icone Pop”. Insomma, mostra grandiosa, ben allestita, divertente da guardare anche grazie all’allestimento spettacolare di Jean-François Bodin, ma sempre non dimenticando un briciolo di senso critico.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.