Prima di incominciare a scrivere della Biennale è decisamente necessario, forse ancora più che descrivere le opere, analizzare il loro aspetto formale e contenutistico, riorganizzare le idee e azzardare qualche necessaria considerazione, prima di farsi travolgere dall’immane numero di opere esposte alla Biennale 2024, firmata Adriano Pedrosa. Cominciando, magari non dal titolo, come si fa da molte parti, ma da una considerazione ancor più generale ovvero che ormai ad esprimersi attraverso l’arte sono molte più persone di quanto si creda, o meglio di quanto abbiamo creduto noi “occidentali” fino a qualche anno fa. Nel mondo si è prodotta e si sta producendo arte ad un ritmo molto sostenuto (mi verrebbe quasi da dire troppo sostenuto) e nei paesi, che nella nostra ottica eurocentrica consideriamo “paesi in via di sviluppo”, se ne produce nelle stesse quantità che in Europa o negli Stati Uniti. Precisato tutto ciò, la Biennale d’arte di Venezia ne è la vera testimonianza che, se letta a livello esponenziale, dà l’idea della iper produzione di manufatti artistici.
A questo punto non resta che affrontare la “massa” delle opere cominciando dalla considerazione, ormai più che ovvia, che la suddivisione in padiglioni nazionali, nel caso della Biennale, non ha più alcun senso. Non ne ha a maggior ragione col tema scelto quest’anno: “Foreigners Everywhere”. Il padiglione del Nucleo Storico Astrazioni, raccoglie le opere di 37 artisti che hanno operato nella seconda metà del IX secolo in Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina. L’esterno della struttura è decorato dall’immenso (e ormai famoso) murale del collettivo brasiliano MAHKU (Movimento Dos Artista Hunt Kuhn) con temi di vegetazione tropicale, con il ponte alligatore simbolo del passaggio tra il continente americano e quello asiatico: in questo caso è facile notare come la datazione della grande maggioranza delle opere sia molto successiva alla nascita dell’astrattismo delle avanguardie storiche europee. I padiglioni nazionali, nel loro complesso, come già detto mi sembrano piuttosto deludenti nel loro stesso “concept” di dover rappresentare nazioni in un mondo di stranieri ovunque.
Certamente le opere esposte “anche” nei padiglioni nazionali dei giardini riservano numerose sorprese, come nel caso degli USA che affidano ad un nativo americano la realizzazione di un grande spazio dedicato alla cultura visiva indigena, coloratissima, in una rivisitazione per nulla scontata come quella di Jeffrey Gibson. Se a questa gioiosa concezione estetico-artistica contrapponiamo il padiglione della Germania che ha come titolo “Thresholds”( in tre riquadri tra i quali quello di Ersan Mondtag) e che mette in scena un mondo post apocalittico, allestendo l’interno di una disastrata abitazione invasa dal fumo e cosparsa di macerie: un modo di essere stranieri attraverso la memoria di epoche passate (ma anche future). La Francia propone un’opera il cui cardine è il rispetto per la diversità delle forme della vita attraverso il lavoro di Julien Creuzet. Lo spunto per raccontarci di un mondo invisibile è dato da una tarantola della Martinica, chiamata Matoutou Falaise, che compare spesso sulla corteccia degli alberi e la cui apparizione, mimetizzata nella natura, disegna forme sconosciute e colori cangianti. Questo titolo sembra far parte della stessa immaginifica opera: “Attila cataracte source aux pieds des pitone verts finira dans la grand mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans le larmes marées de la lune”. Questo lavoro, molto spettacolare, rischia però di mostrare una teatralità di maniera, un po’ troppo fantasmagorica e più ammiccante allo spettacolo degli effetti speciali che alla poetica artistica. Il padiglione dei Paesi Bassi ospita invece le opere cupe e piene di mistero del Collettivo congolese CATPC ovvero Cercle d’Art de Travailleurs de Plantation Congolaise che propongono una serie di sculture che celebrano la blasfemia e il sacro, temi agli antipodi che fanno parte di una stessa cultura e inoltre accomunate da un’aura di fitto mistero interiore. La giraffa Lenka, catturata in Kenya nel 1954 per essere trasportata allo zoo di Praga e che visse in cattività soltanto due anni, è la protagonista dell’installazione del padiglione della repubblica Ceca. L’artista Eva Kofàtkovà immagina la tragica storia della giraffa e ne disseziona il corpo immaginario per indagare sul difficile rapporto natura/cultura, in uno dei padiglioni più particolare dei Giardini della Biennale. Sempre tra i padiglioni nazionali ai giardini, molto interessante il progetto “Petticoat Government”, scenario multidisciplinare, alla cui base c’è lo scompaginamento dei confini nazionali (e delle relazioni tra paesaggio e figura umana), con colossali figure umane di resina prese dal folclore locale di paesi come Francia, Spagna, Belgio, che hanno messo in scena e metteranno in scena cortei performativi, attraversando varie nazioni (Italia compresa), una sorta di corteo carnascialesco ideato da Denicolai & Provoost, Antonietta Jattiot, i collettivi Nord e Spec Uloos (questa scelta è meramente soggettiva e senza nessuna pretesa di essere esaustiva).
All’Arsenale, secondo grande spazio espositivo, ci si rende subito conto che l’allestimento, non strettamente vincolato alla nazionalità, rende più godibile la visita e non costringe alla peregrinazione da un padiglione all’altro, la qual cosa rende il fluire negli ambienti molto più piacevole.
Ad accoglierci ecco ancora la scritta al neon di Claire Fontaine ”Foreigners Everywhere” che qui, con le barriere nazionali ridotte al minimo, sembra decisamente più integrata con gli ambienti. Insieme alla scritta al neon di Claire Fontaine, ecco una delle opere più rappresentativa o almeno la più simbolica, dell’intera esposizione ovvero il cosmonauta- migrante di Ynka Shonibare che, come un viaggiatore nel tempo e nello spazio, porta con sé tutte le tracce della modernità e della memoria, cerca ed è cercato, trova ed è trovato, esplorando il continente più asperrimo, quello dell’anima degli esseri umani. Entrati nella prima grande campata delle Corderie, ecco comparire la scenografica e misterica installazione del neozelandese Mataaho Collettive, formato dalle artiste Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau, vincitrici del Leone d’oro per la miglior opera della Biennale. Alla base di questa imponente e scenografica opera c’è una conoscenza maori, il “takapau”, che è, in origine, una stuoia finemente intessuta usata in particolare durante il parto per proteggere la partoriente.
Il passaggio tra il regno del buio e il regno della luce (parto-nascita) sembra adattarsi, in maniera un po’ paradossale, all’ingresso delle Corderie dell’Arsenale (ove il buio dovrebbe sembrare essere ciò che sta fuori e la luce la rivelazione dell’arte che sta all’interno). L’edificio delle Corderie è lungo e profondo e il notevole numero di opere consente qui solo un veloce excursus su quanto esposto. Nella prima campata le ringhiere, dell’artista angolese Kiluanji Kia Henda, che piuttosto di una sicura protezione appaiono come fragilissime strutture (ricordiamo solo che le ringhiere sono quelle di Luanda la capitale angolana per molti anni squassata dalla guerra civile). Quindi “Ahmad and Akram Protecting Hercules” opera di straordinaria originalità di Omar Mismar, giovane artista libanese, tratta dalla serie “Studies in Mosaics” (2019-20). Un paradosso della contemporaneità, quello per cui Ercole debba essere protetto anziché protettore, mentre l’altro sorprendente paradosso è che una storia tanto moderna, come il perenne stato di guerra diffuso in Libano, venga “raccontato” con una tecnica antichissima e tradizionale, quella del mosaico. Di Dalton Paula una inusuale serie di “Full-Body Portraits”, del 2023, con figure storiche di origine africana che hanno guidato i movimenti antischiavisti in Brasile, ritratti in posizioni classiche, tipo studi fotografici di fine Ottocento. Già viste in altre esposizioni “The Constellations Series” del 2011 di Bouchra Khalili, sono tele quasi kleiniane blu oltremare con la traccia delle principali rotte di migrazione nel Mediterraneo. Di particolare interesse i cosiddetti “Arpilleristas” quadri-manufatti tessili, realizzati col ricamo e prodotti nel Cile del generale Pinochet e che alludono alle perenni lotte per i cambiamenti istituzionali nell’America Latina. Sempre tra le “opere tessili” (grande novità di questa Biennale) ecco i lavori di Claudia Alarcòn, un po’ quadri e un po’ tappeti, con soggetti ispirati alle storie raccontate dagli anziani delle comunità.
Quasi naif i quadri di Marlene Gilson della serie “Happy Families Time when All We live together”, dove colonizzatori e colonizzati sembrano (così almeno sembra) vivere in pace. Ancora nel tessile, occorre citare l’opera di Susanne Wenger che espone qui grandi quadri, realizzati con la tecnica denominata “àdire olórisà”, a soggetto divino della cosmologia yoruba praticata a Cuba. Xiyadie, omosessuale cinese figlio di un contadino, propone opere dal sapore squisitamente “queer” molto originali e dai temi sessual-simbolico, tra le cose più originali viste, almeno tra quelle dipinte. Del resto l’accezione di “migrante” può essere certamente coniugata anche con l’idea di migrante da una sessualità all’altra, come lo stesso termine “transgender” lascia ben intendere, e la Biennale ospita un nutrito numero di artisti che si sono cimentati sul tema delle identità sessuali mutanti. Dopo Xiuadie, mi piace ricordare il lavoro fotografico di Sabelo Mlangeni con le fotografie in gran parte scattate alla “Royal House of Allure” la casa-rifugio LGBTQI+ a Lagos in Nigeria. Una serie di esseri ibridi, motivi astratti e icone più o meno pop, convivono anche nelle immagini di Chola Poblete, artista argentina che, attraverso Il martirio di Chola (2014), affronta l’emarginazione sociale della comunità boliviana residente in Argentina.
A conclusione di questo percorso dentro le Corderie dell’Arsenale, l’Aravani Art Project, collettivo indiano di Bangalore, con al suo interno numerosi transgender, propone un grande murale dai colori vivaci e immagini sfaccettate che rimandano, idealmente, ai colori di tante bandiere nazionali e mostra persone, probabilmente di identità sessuali fluide, nei ruoli sociali più svariati; se non fosse per un pizzico di politicamente scorretto, il murale, anche se non è proprio da “realismo socialista”, appare quantomeno un po’ ingenuo e troppo didascalico. La lunghissima teoria di opere e installazioni del corpo centrale delle Corderie si chiude con tre dipinti su alluminio e una “video-scultura” a led che costituiscono l’installazione di WangShui, incentrata sull’ antichissimo desiderio umano di smaterializzare l’identità. Sarà più efficace questa installazione o sarà stata più efficace la materializzazione ne il “Sogno del Cavaliere” di Raffaello? Queste non sono però domande legittime se si decide di tuffarsi nell’orgia di forme in libertà di una Biennale. Negli edifici circostanti le Corderie , da segnalare, certamente il padiglione lussemburghese con A Comparative Dialogue Act che è stato concepito come un’infrastruttura per la trasmissione del suono, dove quattro artisti Selin Davasse (nato nel 1992, Ankara), Célin Jiang (n.1993, Francia ), Stina Fors (nata nel 1989, Svezia) e Bella Báguena (nata nel 1994, Valencia) presentano il loro lavoro, il cui scopo sembra essere portare la sperimentazione artistica su terreni sempre più fluidi (arti visive/performance/suono) in un tentativo di “migrazione del senso”, forse però un po’ troppo cervellotica.
“Mi trovo dinanzi ad un mondo che è stato svuotato a causa delle guerre, dei terremoti, delle migrazioni, della minaccia nucleare e dei problemi naturali e ambientali che costantemente affliggono e minacciano l’umanità…” ed è questo vuoto che Gülsn Karamustafa, giovane artista turca, cerca di mostrarci con la sua installazione “Hollow and Broken”, di grande impatto, con capitelli e colonne di una plastica volgare ed ostentata, armonizzati con i lampadari di vetro veneziano frantumati, in un ideale doppio connubio Potenza/Decadenza e Venezia/Istanbul. La voce delle donne saudite è invece il tema dell’opera di Manal ALDowyan. Le voci animano grandi sculture a forma di petalo che richiamano le forme della rosa del deserto e su di esse didascalie, titoli di giornali ed altri testi che trattano, solitamente con pregiudizio e luoghi comuni, le donne saudite: un’opera indubbiamente spettacolare, magari solo un po’ troppo didascalica e pedagogica.
Così come lo è anche “Bokk – Bounds”, un progetto dell’artista franco-senegalese Alioune Diagne che espone una serie di pannelli dipinti, tratti da fotografie di migranti leggermente sgranate e dai colori resi diafani da una serie di velature; un messaggio diretto, di immediato impatto, reso più efficace da una imbarcazione tradizionale senegalese spezzata in due tronconi, posta dinnanzi ai pannelli. Anche qui un’arte che si fa manifesto politico di lampante chiarezza, ma un po’ a detrimento della poesia. Un’imbarcazione tradizionale anche nell’opera del libanese Mounira Al Solh, con nientemeno che uno dei più famosi miti del mondo classico, ovvero il rapimento di Europa su una spiaggia della città di Tiro da parte di Zeus, che assunse le sembianze di un toro bianco. La rivisitazione dei racconti mitologici del mondo classico getta certamente un ponte tra le culture e abbatte la visione eurocentrica che ha caratterizzato sempre anche la narrazione mitologica. Il padiglione del Benin offre le opere di tre artisti molto raffinati nel loro forte radicamento alla propria terra; si tratta di Ishola Akpo con un’opera che indaga il ruolo del sacro, delle donne e dei riti, Chloé Quenum che, infine, riflette sulla «fragilità della diaspora. L’artista ha iniziato visitando il Musée du quai Branly-Jacques Chirac di Parigi, per vedere gli strumenti musicali storici beninesi della collezione e le sue opere riproducono gli oggetti visti in vetro: Quenum mira a raccontare la delicata storia dell’eredità, dell’identità e della conoscenza beninese, con un’attenzione alla tratta transatlantica degli schiavi.
Si rischia, in questa infinita flanerie all’Arsenale e in giro per Venezia, di perdersi nelle tantissime opere che tempestano il tessuto urbano della città, come per esempio Jim Dine esposto a Palazzo Rocca Contarini, dove il “vecchio” Jim riempie di meraviglie il giardino (sculture di grandi dimensioni) atrio con un fantastico Pinocchio un po’ in stile Franz West, soppalco coi suoi inconfondibili cuori e salone al piano nobile con opere astratte a tre dimensioni. Ma per concludere questa cronaca forzatamente e volutamente parziale mi piace citare un’opera di Beral Madra, artista ucraina che espone, insieme ad altri connazionali (ma anche con i celeberrimi Allora & Calzadilla) a Palazzo Polignac a due passi dalla Chiesa di Santa Maria della Salute. Una delle opere è una gigantografia a forma di U che ritrae uomini addetti all’interramento di cadaveri della guerra che sta dilaniando quel paese; la guerra/le guerre sono tra le principali cause delle migrazioni dei popoli. Siamo tutti stranieri, è effettivamente così: lo siamo per gli altri e qualche volta lo siamo per noi stessi. Lo siamo per chi ci accetta e lo siamo per chi non ci accetta. L’umanità dolente è in cammino con angosciose certezze, ma anche con tante speranze: questo il messaggio profondo della “Biennale degli stranieri”. Da vedere, per rendersi conto di persona di quanto questo sia vero.