Bosch, un altro Rinascimento

Bisognerebbe proprio dar ragione alla tesi di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione che, in un volumetto di qualche anno fa, un vero e proprio pamphlet, edito da Einaudi ed intitolato “Contro le mostre”, sostenevano che le mostre, ormai, servono solo a fare soldi. Certo, all’apparenza la tesi sembra un po’ azzardata e forse lo è, ma quando ci si imbatte in una mostra come “Bosch e un altro Rinascimento”, in corso a Palazzo Reale di Milano, promossa dal Comune e organizzata da 24 Ore Cultura, con il sostegno del Gruppo Unipol (aperta fino al 13 marzo), la tesi sembra essere assai meno peregrina. Del resto già il titolo, buttato lì un po’ casualmente e adattato “alla bisogna” doveva farlo presagire.

Il povero Hieronymus Bosch, sembra essere in realtà un convitato di pietra in mezzo a reperti, non certo di primo piano, e spesso collocati un po’ pretestuosamente per far da cornice a 5-6 quadri del grandissimo pittore olandese. A questo si aggiunga che due delle sei opere esposte, le “Meditazioni di san Giovanni Battista” e “La Visione di Tundalo”, saranno esposte solo fino a febbraio e poi d’incanto spariranno per tornare al Museo Lázaro Galdiano di Madrid, e allora l’idea, che sui criteri filologici ed espositivi prevalgano quelli economici, diventa più che mai concreta. Insomma più che Bosch a Palazzo Reale è esposta la “boscherie” se mi si passa il fantasioso francesismo. Solo che anche questa fa acqua da tutte le parti, tanto da includere persino una Wunderkammer, che se poco ha di “Kammer” nulla ha di “Wunder”, e che contiene persino un Arcimboldo cacciato dentro piuttosto forzatamente in nome del gusto del bizzarro. Di rimarchevole non c’è un gran che, a parte le belle incisioni di Pieter Van der Heyden, (che per altro sono spesso ispirate da Bruegel il Vecchio e solo per via indiretta da Bosch), un bel pezzo di Marcantonio Raimondi e un magnifico “Giudizio Finale” di Pieter Huys di diretta ispirazione boschiana.

Questo per il merito, per il metodo invece peggio che andar di notte: organizzazione inesistente. Dopo aver prenotato una visita per le ore 13:45 (e pagato conseguentemente biglietto e prenotazione), si scopre che non esiste nessun criterio di ingresso tra prenotati e non prenotati, anzi peggio: chi aveva prenotato l’ora di ingresso ed acquistato il biglietto con supplemento, doveva attenersi scrupolosamente all’orario, mentre chi non aveva prenotato poteva tranquillamente entrare a qualsiasi ora (e senza costi supplementari)e dirigersi in biglietteria , dove peraltro dovevano passare anche i prenotati. Un capitolo a sé merita la questione “apparati”.

Non so quando sia cominciata la smania didattica di apporre pannelli esplicativi nelle mostre, ma di fatto ormai i pannelli, anziché indicare succintamente concetti e/o indicazioni di storiografia artistica, sono diventati “lenzuolate” infinite di contorti ragionamenti o, altre volte, spiegazioni non richieste di disarmante banalità. Una mostra, non è un manuale di storia dell’arte e nemmeno (per fortuna), un documentario di Alberto Angela. Se l’argomento della mostra interessa, il pubblico si documenti a casa propria e poi venga, semplicemente a guardare. Le sale di esposizione non sono aule scolastiche dove permanere davanti alle opere, incapsulati nelle audio guide per imparare la lezioncina e poi indicare agli amici sui social se “valeva la pena” o “non valeva la pena” di visitare una mostra. “L’arte non è roba per gente per bene”, diceva Lea Vergine e ci sono tanti altri modi, per chi vuole “imparare”: alle mostre non si impara niente, ma, semmai, si gusta feticisticamente, l’aura dell’arte. Ultima mostra dell’anno, purtroppo davvero mediocre.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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2 risposte

  1. Mario, buon anno e complimenti per il coraggio di gridare che “il granduca è nudo”. Anch ‘io sono spesso incappata in mostre che presentavano un grande nome solo come specchietto per le allodole…

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Bosch, un altro Rinascimento

Bisognerebbe proprio dar ragione alla tesi di Tomaso Montanari e Vincenzo Trione che, in un volumetto di qualche anno fa, un vero e proprio pamphlet, edito da Einaudi ed intitolato “Contro le mostre”, sostenevano che le mostre, ormai, servono solo a fare soldi. Certo, all’apparenza la tesi sembra un po’ azzardata e forse lo è, ma quando ci si imbatte in una mostra come “Bosch e un altro Rinascimento”, in corso a Palazzo Reale di Milano, promossa dal Comune e organizzata da 24 Ore Cultura, con il sostegno del Gruppo Unipol (aperta fino al 13 marzo), la tesi sembra essere assai meno peregrina. Del resto già il titolo, buttato lì un po’ casualmente e adattato “alla bisogna” doveva farlo presagire.

Il povero Hieronymus Bosch, sembra essere in realtà un convitato di pietra in mezzo a reperti, non certo di primo piano, e spesso collocati un po’ pretestuosamente per far da cornice a 5-6 quadri del grandissimo pittore olandese. A questo si aggiunga che due delle sei opere esposte, le “Meditazioni di san Giovanni Battista” e “La Visione di Tundalo”, saranno esposte solo fino a febbraio e poi d’incanto spariranno per tornare al Museo Lázaro Galdiano di Madrid, e allora l’idea, che sui criteri filologici ed espositivi prevalgano quelli economici, diventa più che mai concreta. Insomma più che Bosch a Palazzo Reale è esposta la “boscherie” se mi si passa il fantasioso francesismo. Solo che anche questa fa acqua da tutte le parti, tanto da includere persino una Wunderkammer, che se poco ha di “Kammer” nulla ha di “Wunder”, e che contiene persino un Arcimboldo cacciato dentro piuttosto forzatamente in nome del gusto del bizzarro. Di rimarchevole non c’è un gran che, a parte le belle incisioni di Pieter Van der Heyden, (che per altro sono spesso ispirate da Bruegel il Vecchio e solo per via indiretta da Bosch), un bel pezzo di Marcantonio Raimondi e un magnifico “Giudizio Finale” di Pieter Huys di diretta ispirazione boschiana.

Questo per il merito, per il metodo invece peggio che andar di notte: organizzazione inesistente. Dopo aver prenotato una visita per le ore 13:45 (e pagato conseguentemente biglietto e prenotazione), si scopre che non esiste nessun criterio di ingresso tra prenotati e non prenotati, anzi peggio: chi aveva prenotato l’ora di ingresso ed acquistato il biglietto con supplemento, doveva attenersi scrupolosamente all’orario, mentre chi non aveva prenotato poteva tranquillamente entrare a qualsiasi ora (e senza costi supplementari)e dirigersi in biglietteria , dove peraltro dovevano passare anche i prenotati. Un capitolo a sé merita la questione “apparati”.

Non so quando sia cominciata la smania didattica di apporre pannelli esplicativi nelle mostre, ma di fatto ormai i pannelli, anziché indicare succintamente concetti e/o indicazioni di storiografia artistica, sono diventati “lenzuolate” infinite di contorti ragionamenti o, altre volte, spiegazioni non richieste di disarmante banalità. Una mostra, non è un manuale di storia dell’arte e nemmeno (per fortuna), un documentario di Alberto Angela. Se l’argomento della mostra interessa, il pubblico si documenti a casa propria e poi venga, semplicemente a guardare. Le sale di esposizione non sono aule scolastiche dove permanere davanti alle opere, incapsulati nelle audio guide per imparare la lezioncina e poi indicare agli amici sui social se “valeva la pena” o “non valeva la pena” di visitare una mostra. “L’arte non è roba per gente per bene”, diceva Lea Vergine e ci sono tanti altri modi, per chi vuole “imparare”: alle mostre non si impara niente, ma, semmai, si gusta feticisticamente, l’aura dell’arte. Ultima mostra dell’anno, purtroppo davvero mediocre.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.