Non è solo da oggi, che sono attratto dagli artisti africani molto più vivaci, molto più motivati, molto più attenti è molto più prolifici dei cosiddetti artisti occidentali (sempre che queste definizioni significhino ancora qualcosa). Allora se amate l’arte africana contemporanea (ma anche se non sapete neppure cosa sia e/o come sia) non dovreste perdervi “Born in the first light of the morning” di Dineo Seshee Bopape, allestita nello “Shed” del Pirelli Hangar Bicocca a Milano. Di solito a questo punto sarebbe d’uopo presentare l’artista. Mi limiterò a dire che Bopape è nata a Polokwane, in Sudafrica, nel 1981 ed è proprio il luogo di nascita, più che il prestigioso curriculum di studi, che dà profondissimo senso alla sua arte che, inutile negarlo, ha necessariamente a che fare con molte avanguardie artistiche della seconda metà del Secolo breve, nonostante queste ancestrali e remote radici. Video, installazioni, Land Art, sono i mezzi coi quali la Bopape costruisce il suo universo segnico e i “resti” di un mondo fattuale, costruito spesso da terra, roccia, fuoco e acque che, quasi invariabilmente, ritornano al tema più caro all’artista africana: il colonialismo e l’Apartheid.
Ispiratrici di Dineo Seshee Bopape sono state numerose figure di scrittori e attivisti anti coloniali del sud del mondo, come lo psichiatra e attivista Frantz Fanon, lo scrittore Sol Plaatje, la scrittrice femminista afro-americana Audre Lorde, il sociologo Stuart Hall, l’attivista anti-Apartheid Winnie Mandela. Lo “Shed” con il suo aspetto post-industriale, genera un contrasto ambientale con le opere della Bopape, aumentandone la suggestione. Tra le installazioni più suggestive figura certamente “Itchy Fairy” del 2009, tavolino bianco su erba sintetica, illuminato da una serie di lampadine che evocano la leggerezza della speranza, a fronte di pesanti sacchi di iuta presenti nella medesima installazione (come non ricordare Ibrahim Mahama che ha impacchettato Porta Venezia a Milano, solo qualche anno fa?). Di grande effetto i tre schermi sui quali scorrono immagini di moti ondosi di “Ierato”laka le a phela, la a phela, le a phela/My love is alive, is alive, is alive”, viaggio nel tempo ispirato agli spiriti oceanici delle isole Salomone Più criptico è certamente “(Serithi) The rest, as theyused say, is story” del 2021, video con l’ombra dell’artista proiettata su una battigia, dove si coglie appieno tutto l’effimero trascorrere del tempo (della Storia e delle “storie”). Due le installazioni “site specific”: la gigantesca “And-in. the light of this.—–” e “Mothabeng”. Si tratta di due cupole in terra compressa che richiamano alla memoria dell’artista le unità abitative del Lesotho, dette “Rondavel”. Com’è noto, l’arte non “spiega” nulla, ma quando funziona l’arte “evoca”: evoca il Tempo, il passato, la Storia, la nostalgia, il Senso delle cose e,appunto, questa due costruzioni altra funzione non hanno. La terra come madre, come principio delle cose (e) del mondo. All’interno della prima delle due costruzioni, una colonna sonora con suoni provenienti dalle cave delle Alpi Apuane (registrazione appositamente realizzata per Hangar Bicocca) rende l’ambiente ancora più misterioso, quasi mistico. Ma le due installazioni più pregne di suggestioni sono certamente “Lerole: footnotes: (The struggle of memory against forgetting) del 2017, dove il titolo risulta essere piuttosto esplicativo del programma iconografico dell’opera. Cumuli di mattoni di terra compressa , argilla, carbone, ceramica, foglie d’oro e erbe curative vanno a disegnare un “presepe” (nel senso vero dell’etimologia latina “prae”cioè, “innanzi” e “saepes” ovvero “chiuso”), che rimanda ad atmosfere della terra natia, ma non solo. Si tratta di una “topografia della memoria e dell’immaginario” fatta anche di sensazioni olfattive, attivate dalla combustione dell’incenso, e acustiche, messe in opera dai suoni di vecchi giradischi posizionati all’interno dell’installazione. In particolare l’artista evoca, tramite il cinguettio di un quetzal, uccello sacro e simbolo di libertà per Maya ed Aztechi dell’America Centrale, tutte le lotte di resistenza anti-coloniale, come, allo stesso modo, fanno le placche di legno con date e testi incisi che ricordano i principali scontri con gli invasori europei.
I pugni di terra che punteggiano l’opera rimandano invece al gesto di Robert Sobuwke (1924-1978), dissidente politico sudafricano, che nel carcere di Robben Island era solito gettare in aria della terra all’arrivo di nuovi prigionieri. Gesti simbolici, difficili da cogliere nel loro intimo significato per noi uomini e donne libere, ma che nella coscienza di Dineo, sono pregni di significato e di valore morale. Per finire, “Mabu,mbu,mmu,sa–ke lerole. (sa lerole ke–)” è costituita da cinque blocchi di terra di forme e misure differenti, opera più vicina alla produzione della Land Art , dominata dai cumuli di preghiera, mucchietti di terra, cristalli, erbe curative, materiali della vita pratica e anche simbolici per le donne indigene di tutto il mondo, a memoria (magari perenne) del razzismo che il mondo occidentale ha sempre alimentato e nutrito verso popolazioni e stili di vita “altri”. Mostra difficile se ci si ostina a voler capire senza voler sentire.