“Non ho fatto la sciocchezza di andare a studiare le mele cubiste come voleva Severini, che io non sento, né gli altri ‘purismi’ che si propongono a quelli che cominciano a dipingere. Io non ho fatto che trasportare tutto il mio stesso mondo di decoratore in un mondo di pittore, sfrondandolo dei fronzoli, dello stile antico, e di ogni eleganza, mettendone insomma a nudo quello che per me, tra torri e scale solitarie è l’elemento di poesia, di dramma qualche volta…” E se lo dice lui, Domenico Gnoli, tanto vale credergli.
La sua pittura non porta con sé grandi messaggi, anzi forse non porta con sé nessun messaggio, oppure, ed io appartengo a questa scuola di pensiero, porta con sé il più grande di tutti i messaggi dell’arte e della poesia: la meraviglia, che del poeta e, conseguentemente, dell’artista, che come aveva intuito Gian Battista Marino, era il fine. Il messaggio di Domenico Gnoli è tutto qui. Inutile raschiare nel nostro desiderio di “andare oltre”, di “capire”, inutile cercare chiavi di lettura del mondo, inutile pensare, meglio guardare.
Qualche volta “guardare” riempie la nostra mente, più del “pensare”. Magari guardando da vicino, da punti di vista inconsueti o incongrui con la logica visiva. Per fare questo, occorre saper guardare un papillon, come si guarda una collina e magari occcorre saper guardare una collina, come fosse un papillon. Per dare un’occhiata “da vicino” alle cose viste dagli occhi di Gnoli, avete tempo fino a febbraio visitando la bella mostra della Fondazione Prada di Milano. E sarebbe un peccato non farlo, prima di tutto perché è molto difficile vedere così tante opere di Gnoli tutte insieme e poi perché, a parere di chi vi scrive, Domenico Gnoli è stato un artista pop, molto prima di Andy Warhol o di Tom Wesselmann.
Basta guardare il bottone che naviga in mezzo al tessuto grigio di un paio di pantaloni a cui è cucito e che fa pensare all’ago di Piazza Cadorna di Cales Oldenburg, a sua volta debitore ai pop-artisti e alla loro attenzione per oggetti di uso comune, assurti alla dignità di opere d’arte. Così è anche per la vasca da bagno, che come tutti gli accessori domestici, è stata molto corteggiata dalla Pop Art. Pittore, Gnoli lo è stato in una maniera, forse meno consapevole e, soprattutto, quando i tempi non erano ancora maturi, ma sicuramente in lui alcune soluzioni formali (meno ideologiche), già preludevano ad uno sguardo oggettuale sul quotidiano come infinita fonte di ispirazione. La mostra allestita nel cosiddetto “Podium” della Fondazione Prada, è nettamente divisa in due parti: al piano terra le grandi opere pittoriche degli anni Sessanta, al piano superiori le grafiche, le scenografie, i bozzetti, i disegni e un apparato di documenti molto interessante.
Forse, per logica, avrebbe dovuto essere il contrario, poiché prima di “assurgere” al ruolo di pittore, Domenico Gnoli, fu decoratore e scenografo, ma è pur vero che l’impatto delle grandi tele sul pubblico, produce un benefico effetto-meraviglia, che appassiona il visitatore e lo accompagna nella visita con una attenzione crescente. È da ricordare che l’attività di scenografo di Gnoli è di tutto riguardo, avendo lavorato in Italia con registi cinematografici quali Alessandro Blasetti, per il teatro con grandi compagnie italiane e, una volta trasferitosi a Londra, per il leggendario “Old Vic” e a Parigi con Jean-Louis Barrault.
Fu proprio a Parigi che, per così dire, si scoprì pittore anche a causa di una certa insofferenza per il lavoro di equipe, a cui lo costringeva l’allestimento teatrale. Domenico Gnoli morì giovane, così come giovane e pieno di meraviglia è sempre stato il suo lavoro. Un artista originale, ascrivibile nei nomi di una immaginaria “galleria del sogno” della pittura e dell’illustrazione del novecento, quella dove con lui potrebbero trovar posto magari, ed è una ipotesi del tutto personale, anche Alberto Savinio, Roland Topor, Piero Fornasetti, ma se vi venissero alla mente altri nomi, la galleria è sempre aperta…