Vista l’accellerazione del Tempo, almeno di quello percepito, è probabile che tra pochi anni o addirittura tra pochi mesi, l’assedio russo all’acciaieria Azovstal, sia già materia cinematografica. Ed inevitabilmente quando accade di vedere film su argomenti che abbiamo visto accadere anche se attraverso la lente (deformante o meno), della televisione o attraverso le pagine dei giornali, il primo giudizio che si affaccia alla nostra mente è sempre quello della coerenza (ma anche sulla pertinenza) di quel film con il nostro ricordo dei fatti accaduti. E oggi, guardando “Esterno notte” di Marco Bellocchio, cupo e denso film sul rapimento di Aldo Moro, questo “elemento-coerenza” si è subito manifestato in me.

Credo sia inutile qui, ripercorrere le vicende di quei giorni, tanto sono note e sulle quali si sono versati i famosi “fiumi di inchiostro”, si sono girati altri film e fiction. Ognuno di noi si è fatto di quella tragica storia e di quegli anni definiti “di piombo”, una sua idea personale e non si può che condividere la posizione di grande equilibrio tenuta dal regista e dagli sceneggiatori, nell’affrontare la spinosa ricostruzione. Sono quindi personalmente più interessato a discutere su come Marco Bellocchio abbia tradotto cinematograficamente il racconto di quei giorni.

Non nascondo che non ho una grande passione per il cinema politico, almeno non per quello che per essere politico deve raccontare vicende politiche. Certo che qualche eccezione è sempre ammessa e se i nomi fossero quelli di Kostantinos Costa-Gavras o magari Ken Loach, ma anche lo Steven Spielberg di “The Post”, il discorso cambierebbe. Ed è evidente che Marco Bellocchio sia tra queste eccezioni, un regista che, come dicono le persone importanti, è stato fondamentale per la mia formazione. E anche questa volta, in questo lunghissimo film, le mie aspettative non sono andate deluse. Una ricostruzione del clima politico della fine degli anni Settanta, assolutamente credibile, descrizioni delle psicologie degli uomini politici dalla cura quasi maniacale, ma senza ombra di tipizzazione caricaturale, molti primi e primissimi piani, quasi a voler indugiare più sul pensiero che sull’apparenza.

Ricostruzione degli ambienti curata e minuziosa, senza quasi nessun ricorso alle immagini di archivio che ormai sembrano sempre un po’ posticce e dànno sempre l’idea che il regista non sappia rendere reale il suo cinema, tanto da dover ricorrere ad una spruzzata di cinegiornali per rendere accettabile l’effetto realtà. E poi, soprattutto, il tempo-lento, a cui solo i grandi e coraggiosi registi sanno ricorrere senza il timore di annoiare il pubblico e, comunque, capaci di azzardare. È pur vero che nel 1978 le notizie, le comunicazioni, forse anche il pensiero (e sicuramente le convinzioni) duravano molto di più che il batter d’ali a cui questi tempi frenetici ci hanno abituati.

Il risultato di “Esterno notte” è comunque eccellente e Marco Bellocchio a ottantatré anni bagna tranquillamente il naso a metà (per essere generosi), dei registi italiani. Nota di merito anche a Fabrizio Gifuni che, più che interpretare Aldo Moro, si è trasformato in lui.

Non aspettate l’autunno per vedere questo film sbriciolato in più puntate televisive, che banalizzeranno il ritmo della narrazione.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Esterno notte

Vista l’accellerazione del Tempo, almeno di quello percepito, è probabile che tra pochi anni o addirittura tra pochi mesi, l’assedio russo all’acciaieria Azovstal, sia già materia cinematografica. Ed inevitabilmente quando accade di vedere film su argomenti che abbiamo visto accadere anche se attraverso la lente (deformante o meno), della televisione o attraverso le pagine dei giornali, il primo giudizio che si affaccia alla nostra mente è sempre quello della coerenza (ma anche sulla pertinenza) di quel film con il nostro ricordo dei fatti accaduti. E oggi, guardando “Esterno notte” di Marco Bellocchio, cupo e denso film sul rapimento di Aldo Moro, questo “elemento-coerenza” si è subito manifestato in me.

Credo sia inutile qui, ripercorrere le vicende di quei giorni, tanto sono note e sulle quali si sono versati i famosi “fiumi di inchiostro”, si sono girati altri film e fiction. Ognuno di noi si è fatto di quella tragica storia e di quegli anni definiti “di piombo”, una sua idea personale e non si può che condividere la posizione di grande equilibrio tenuta dal regista e dagli sceneggiatori, nell’affrontare la spinosa ricostruzione. Sono quindi personalmente più interessato a discutere su come Marco Bellocchio abbia tradotto cinematograficamente il racconto di quei giorni.

Non nascondo che non ho una grande passione per il cinema politico, almeno non per quello che per essere politico deve raccontare vicende politiche. Certo che qualche eccezione è sempre ammessa e se i nomi fossero quelli di Kostantinos Costa-Gavras o magari Ken Loach, ma anche lo Steven Spielberg di “The Post”, il discorso cambierebbe. Ed è evidente che Marco Bellocchio sia tra queste eccezioni, un regista che, come dicono le persone importanti, è stato fondamentale per la mia formazione. E anche questa volta, in questo lunghissimo film, le mie aspettative non sono andate deluse. Una ricostruzione del clima politico della fine degli anni Settanta, assolutamente credibile, descrizioni delle psicologie degli uomini politici dalla cura quasi maniacale, ma senza ombra di tipizzazione caricaturale, molti primi e primissimi piani, quasi a voler indugiare più sul pensiero che sull’apparenza.

Ricostruzione degli ambienti curata e minuziosa, senza quasi nessun ricorso alle immagini di archivio che ormai sembrano sempre un po’ posticce e dànno sempre l’idea che il regista non sappia rendere reale il suo cinema, tanto da dover ricorrere ad una spruzzata di cinegiornali per rendere accettabile l’effetto realtà. E poi, soprattutto, il tempo-lento, a cui solo i grandi e coraggiosi registi sanno ricorrere senza il timore di annoiare il pubblico e, comunque, capaci di azzardare. È pur vero che nel 1978 le notizie, le comunicazioni, forse anche il pensiero (e sicuramente le convinzioni) duravano molto di più che il batter d’ali a cui questi tempi frenetici ci hanno abituati.

Il risultato di “Esterno notte” è comunque eccellente e Marco Bellocchio a ottantatré anni bagna tranquillamente il naso a metà (per essere generosi), dei registi italiani. Nota di merito anche a Fabrizio Gifuni che, più che interpretare Aldo Moro, si è trasformato in lui.

Non aspettate l’autunno per vedere questo film sbriciolato in più puntate televisive, che banalizzeranno il ritmo della narrazione.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.