Francesco Guccini, canzoni da intorto

Questa volta, non posso scrivere semplicemente la recensione di un disco, per il motivo che con Francesco Guccini “è tutta un’altra storia”. Non può essere una recensione perché per molti della mia generazione Guccini non è solamente un cantautore. Per chi poi ha avuto diciotto anni, nel 1977 a Novara, ci si mettono di mezzo anche implicazioni sentimentali. Cominciamo dalle date e dai luoghi: il 1977 è l’anno della mia maturità a Novara ed è anche la città del mio amico Riccardo Bertoncelli, già allora il critico musicale più noto e celebrato d’Italia, sì proprio quello citato ne “L’avvelenata”, canzone-monstre che sconvolse il mondo musicale italiano.

Ma c’è qualcosa di ancora più intimo in questa lunga storia d’amore. Nel marzo del 1977 Francesco Guccini tenne un concerto al Convitto Carlo Alberto per noi, allora studenti del liceo artistico, e in sostegno alla nostra lotta. Tutto questo “pistolotto da reduce”, solo per dirvi che questo è uno scritto assolutamente partigiano e poco obiettivo. “Canzoni da intorto” è un disco semplicemente stupendo. Cominciamo dal titolo: come si può intuire, le canzoni da “intorto” sono quelle scritte e interpretate per imbonire o anche per circuire qualcuno. Evviva la sincerità di Guccini, perché se si comincia un album con “Morti di Reggio Emilia”, scritta da Fausto Omodei, una delle più emozionanti canzoni politiche italiane, oltre a ribadire una chiara scelta di campo politico, ci si è già “intortata” una bella fetta di pubblico, me compreso, naturalmente.

Suggestivo l’arrangiamento che attenua un po’ lo scarno rigore musicale della canzone politica in un melange quasi bandistico, senza far perdere nulla del fiero messaggio politico della canzone. Segue il burbero intimismo di “El me gatt” di Ivan della Mea, una delle sue poche canzoni non politiche “stricto sensu”. “Barun litrun” , che segue, è una canzone di origine popolare e va qui ricordato che Guccini è sempre stato un cultore del genere. La canzone ricorda Karl Sigmund Friedrich von Leutrum, nobile tedesco al servizio di Casa Savoia, che fu nominato da Carlo Emanuele III (toh, ancora Novara, proprio quello del monumento in Piazza Puccini) governatore di Cuneo, la città che difese poi strenuamente nella guerra franco-spagnola durante l’assedio del 1744, diventando così un eroe popolare. È grazie alla passione di Costantino Nigra e dei suoi studi sulla musica popolare che questa canzone è giunta fino a noi. Di “Ma mi” di Carpi-De Resmini- Strehler, credo ci sia poco da dire, salvo la grande passionalità dell’interpretazione di Francesco (e la sua ottima pronuncia milanese).

“Tera e aqua” è un omaggio ad una terra di grandi patemi popolari come il Polesine e quindi “Le nostre domande”, misconosciuta canzone di Margherita Galante Garrone, precedono una solenne “Nel fosco fin del secolo” che Guccini non esita a definire “la nonna della Locomotiva”, canto anarchico di stampo lirico-ottocentesco. In “Green slevees”, canto tradizionale inglese attribuito addirittura ad Enrico VIII, le “maniche verdi” sono una allusione alle vesti delle prostitute del XVI secolo, e da lui dedicata ad Anna Bolena. A questo notissimo canto, Francesco Guccini dà un tocco oltremodo romantico forse dovuto alla sua amabile pronuncia british-emiliana. Nel disco c’è posto anche per la poesia di Franco Fortini (musicata da Fiorenzo Carpi), “Quella cosa in Lombardia” che è una struggente e realistica composizione, fuori dagli schemi della ballata popolare e molto vicina alla riflessione in musica, una riflessione sull’amore rubato in un albergo a ore o su qualche prato di periferia, con un’impostazione molto diversa dal cliché della canzonetta.

E non “sono solo canzonette”, sottolinea Guccini nella prezioso libriccino che accompagna il cd. Se non ha bisogno di presentazione “Addio Lugano bella” di Pietro Gori, forse il canto anarchico più noto, amabilmente arrangiato alla De André ultima maniera, la successiva “Sei minuti all’alba”, riflessione di un condannato a morte in attesa dell’esecuzione, fu scritta da Enzo Jannacci e dedicata al padre partigiano. La tristezza struggente di Jannacci rende questo brano uno dei più belli di tutto l’album. Si finisce con una “ghost track”, un brano non incluso nella scaletta del disco, che si intitola “Sluga Naroda” (servitore del popolo), canzone popolare ucraina. Ho spesso pensato a quale fosse la posizione del poeta di Pàvana sull’invasione russa, ho persino temuto che Francesco fosse passato dalla parte dei pacifisti di comodo, ma poi, come nell’Amico ritrovato” di Fred Uhlman, in quelle sue parole finali, non cantate ma sussurrate al termine del disco, ho ritrovato il Francesco Guccini da sempre dalla parte dei deboli: “Slava Ucraïni…”

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Francesco Guccini, canzoni da intorto

Questa volta, non posso scrivere semplicemente la recensione di un disco, per il motivo che con Francesco Guccini “è tutta un’altra storia”. Non può essere una recensione perché per molti della mia generazione Guccini non è solamente un cantautore. Per chi poi ha avuto diciotto anni, nel 1977 a Novara, ci si mettono di mezzo anche implicazioni sentimentali. Cominciamo dalle date e dai luoghi: il 1977 è l’anno della mia maturità a Novara ed è anche la città del mio amico Riccardo Bertoncelli, già allora il critico musicale più noto e celebrato d’Italia, sì proprio quello citato ne “L’avvelenata”, canzone-monstre che sconvolse il mondo musicale italiano.

Ma c’è qualcosa di ancora più intimo in questa lunga storia d’amore. Nel marzo del 1977 Francesco Guccini tenne un concerto al Convitto Carlo Alberto per noi, allora studenti del liceo artistico, e in sostegno alla nostra lotta. Tutto questo “pistolotto da reduce”, solo per dirvi che questo è uno scritto assolutamente partigiano e poco obiettivo. “Canzoni da intorto” è un disco semplicemente stupendo. Cominciamo dal titolo: come si può intuire, le canzoni da “intorto” sono quelle scritte e interpretate per imbonire o anche per circuire qualcuno. Evviva la sincerità di Guccini, perché se si comincia un album con “Morti di Reggio Emilia”, scritta da Fausto Omodei, una delle più emozionanti canzoni politiche italiane, oltre a ribadire una chiara scelta di campo politico, ci si è già “intortata” una bella fetta di pubblico, me compreso, naturalmente.

Suggestivo l’arrangiamento che attenua un po’ lo scarno rigore musicale della canzone politica in un melange quasi bandistico, senza far perdere nulla del fiero messaggio politico della canzone. Segue il burbero intimismo di “El me gatt” di Ivan della Mea, una delle sue poche canzoni non politiche “stricto sensu”. “Barun litrun” , che segue, è una canzone di origine popolare e va qui ricordato che Guccini è sempre stato un cultore del genere. La canzone ricorda Karl Sigmund Friedrich von Leutrum, nobile tedesco al servizio di Casa Savoia, che fu nominato da Carlo Emanuele III (toh, ancora Novara, proprio quello del monumento in Piazza Puccini) governatore di Cuneo, la città che difese poi strenuamente nella guerra franco-spagnola durante l’assedio del 1744, diventando così un eroe popolare. È grazie alla passione di Costantino Nigra e dei suoi studi sulla musica popolare che questa canzone è giunta fino a noi. Di “Ma mi” di Carpi-De Resmini- Strehler, credo ci sia poco da dire, salvo la grande passionalità dell’interpretazione di Francesco (e la sua ottima pronuncia milanese).

“Tera e aqua” è un omaggio ad una terra di grandi patemi popolari come il Polesine e quindi “Le nostre domande”, misconosciuta canzone di Margherita Galante Garrone, precedono una solenne “Nel fosco fin del secolo” che Guccini non esita a definire “la nonna della Locomotiva”, canto anarchico di stampo lirico-ottocentesco. In “Green slevees”, canto tradizionale inglese attribuito addirittura ad Enrico VIII, le “maniche verdi” sono una allusione alle vesti delle prostitute del XVI secolo, e da lui dedicata ad Anna Bolena. A questo notissimo canto, Francesco Guccini dà un tocco oltremodo romantico forse dovuto alla sua amabile pronuncia british-emiliana. Nel disco c’è posto anche per la poesia di Franco Fortini (musicata da Fiorenzo Carpi), “Quella cosa in Lombardia” che è una struggente e realistica composizione, fuori dagli schemi della ballata popolare e molto vicina alla riflessione in musica, una riflessione sull’amore rubato in un albergo a ore o su qualche prato di periferia, con un’impostazione molto diversa dal cliché della canzonetta.

E non “sono solo canzonette”, sottolinea Guccini nella prezioso libriccino che accompagna il cd. Se non ha bisogno di presentazione “Addio Lugano bella” di Pietro Gori, forse il canto anarchico più noto, amabilmente arrangiato alla De André ultima maniera, la successiva “Sei minuti all’alba”, riflessione di un condannato a morte in attesa dell’esecuzione, fu scritta da Enzo Jannacci e dedicata al padre partigiano. La tristezza struggente di Jannacci rende questo brano uno dei più belli di tutto l’album. Si finisce con una “ghost track”, un brano non incluso nella scaletta del disco, che si intitola “Sluga Naroda” (servitore del popolo), canzone popolare ucraina. Ho spesso pensato a quale fosse la posizione del poeta di Pàvana sull’invasione russa, ho persino temuto che Francesco fosse passato dalla parte dei pacifisti di comodo, ma poi, come nell’Amico ritrovato” di Fred Uhlman, in quelle sue parole finali, non cantate ma sussurrate al termine del disco, ho ritrovato il Francesco Guccini da sempre dalla parte dei deboli: “Slava Ucraïni…”

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.