Purtroppo vi scrivo di una mostra che chiude i battenti domani, ma solo oggi sono riuscito a vederla. Si tratta di “Gabriele Basilico: le mie città” alla Triennale di Milano. Conobbi Gabriele Basilico e la sua opera)allora era un giovane fotografo che usciva dalla facoltà di architettura), per il tramite di Giorgio Fonio, mio docente al liceo artistico di Novara. Lui, che ci considerava dei poveri ignoranti (e faceva bene), fu tra quelli che mi trasmise quell’incancellabile amore per le arti visive, per l’architettura, per il design, ma anche per la semiotica e tanto, tanto altro. Basilico era anche un suo amico e questo non guastava. Proprio in virtù di quel ricordo, per una volta, vorrei che a descrivere questo grande artista, fosse un altro suo amico, Stefano Boeri, Presidente della Fondazione La Triennale Milano. Sono le parole, poco consuete, che accolgono il visitatore di questa magnifica mostra:
“Gabriele mi manca, ci manca tantissimo. Avrei voluto vederlo guardare, oggi, questa nostra Milano. La Milano esplosa con l’Expo del 2015, con la sua frenetica energia immobiliare, il traffico indecente e l’arrivo delle grandi multinazionali del mondo digitale. La nuova Milano delle settimane della cultura e dei concerti, percorsa dalle onde emotive dei social media e dall’orgoglio di una capitale europea. La Milano delle nuove povertà, dei caseggiati pubblici abbandonati, delle migliaia di persone senza fissa dimora che dormono sotto i portici del centro.
La Milano meno grigia e più verde dei nuovi giardini e dei balconi fioriti, dei terrazzi e dei tetti vegetalizzati, della statua imbrattata di Vittorio Emanuele in piazza Duomo a gridare la disperazione dei ragazzi che non accettano l’indifferenza verso la tragedia ambientale.
La Milano del turismo di massa, dei dehors dappertutto, dei taxi che mancano e delle code in Montenapoleone.
La Milano dei vacanzieri da Airbnb al posto delle famiglie, delle scrivanie vuote negli open space degli uffici.
Avrei voluto seguire Gabriele e guardare con lui, attraverso i suoi occhi insieme delicati e implacabili, la Milano dei mesi terribili della pandemia; la Milano delle strade vuote, delle piazze vuote, delle facciate delle case a trattenere una folla di individui spersi; la Milano delle morti divenute sparizioni, la Milano senza più lutti ma solo perdite. Decifrare con lui quei vuoti urbani e quelle facciate, così simili e così diversi da quelli da lui intercettati in anni di sopralluoghi e spostamenti con il banco ottico.
E poi sentire la voce pacata di Gabriele, alternata agli inconfondibili sbuffi nasali, commentare le sue foto sulla Milano della rinascita, su questa nostra Milano di questi nostri giorni dove regna la frenesia meccanica della ripartenza.
Piena di macchine e di corpi in movimento anche perché incapace di fermarsi a pensare, a piangere i suoi morti, a sentire il peso del tempo perduto.
Avrei voluto parlare con Gabriele della malinconia inquieta di una città riscopertasi muscolare, di successo, eppure così fragile nello sforzo di rimuovere un dramma collettivo di dimensioni impreviste.
Gabriele non c’è più e le sue foto appartengono a un tempo diverso. Inutile cercare tra loro gli indizi di un futuro cosi lontano dalla ragionevolezza di una previsione, seppur in fondo così vicino (sono passati pochi anni) al loro attimo di scatto, al momento del loro ritratto urbano. Ma a ben guardare nel calco profondo e a volte buio della Milano di pietra, asfalto, cemento e vetro che Gabriele per quarant’anni ha magicamente raccontato, nei fili perfetti che solcano i suoi cieli in bianco e nero e soprattutto nei vuoti, nell’assenza dei corpi e dei gesti della vita quotidiana, la Milano fragile e frenetica di oggi ci appare come una possibilità, un sogno e insieme un incubo plausibile.
Un popolo di storie e di eventi che il film fotografico su Milano di Gabriele Basilico aveva già in qualche modo incorporato. Come sanno fare solo i grandi artisti”
(Stefano Boeri)