I titoli delle mostre sono un po’ come quelli dei giornali che, come è noto, li crea la redazione e non l’estensore dell’articolo. Non nascondo che mi incuriosiva un po’ quel Pompei messo in fondo al titolo della mostra alle Gallerie d’Italia di Milano (fino al prossimo 27 marzo), perché pur avendo visto a sazietà tele, disegni e tavole appartenenti ai più celebrati artisti viaggiatori, è pur sempre raro vedere quadri o opere d’arte di ambientazione pompeiana. Ed infatti, anche in questa mostra non ce ne sono , o meglio, ci sono nel titolo.
Nelle sale non mi sono accorto di tele raffiguranti Pompei. L’unico oggetto è la “machette” del Tempio di Iside ri-costruito in scala con artigianale perizia da Carlo Albacini. Poi nella mostra tantissima Roma, molta Napoli, pochissima Venezia, quasi inesistente Firenze e la Sicilia (anche se per il titolo il tour si ferma a Pompei). Diciamo un Grand Tour da tempo di pandemia. Nella monumentale e pretenziosa “nave” centrale della ex Banca Commerciale (la sede delle Gallerie d’Italia), ad accogliere il visitatore c’è l’imponente e maniacale “Centrotavola con Trionfo di Bacco e Arianna, Apollo e le Muse” di Giovanni Volpato, famoso per i suoi “biscuit” che invasero mezza Europa.
Diciamo un rappresentante ante-litteram del “Made in Italy”, che forse con il Grand Tour non c’entra tantissimo, e c’entra forse di più con il commercio della ceramica. Ma si sa che nelle mostre oggi “nun se po’ sta a vedè er capello”. Molto bella la veduta di Venezia di Gaspar Van Wittel che sembra un Canaletto, così come molto belle sono le vedute dei Fori di Michelangelo Barberi, soprattutto per il colore, tutto romano, della luce dorata che si spalma sui monumenti antichi. Una magnifica ed animata visita di Carlo di Borbone in Vaticano del Panini, ricorda che il Grand Tour non fu rito di iniziazione solo per artisti e scrittori, ma anche deferente omaggio di reali alla “santità der cupolone” per dirla con Antonello Venditti. Meno tronfio ma di maggior interesse mi pare essere la “Veduta ideale di Vicenza con celebrazione allegorica di Andrea Palladio” di Francesco Zuccarelli, dove in uno sguardo d’insieme si coglie la città veneta, con la Basilica Palladiana, ma anche, con una forzatura topografica, la villa detta “La Rotonda”, con in primo piano, un barbuto Palladio probabilmente a colloquio con due committenti.
Sempre di Giovanni Paolo Panini, il solito “pastiche” di rovine con Pantheon, Colonna Antonina e Marco Aurelio, tutto buttato nello stesso luogo, non per coscienza ecologica e consumo del territorio, ma perché gli andava di pensare a Roma come ad una vetrina di un rigattiere, ma sempre niente in confronto ad Hubert Robert che, per non farsi mancare niente, pensa bene di piazzare il Pantheon davanti al Porto di Ripetta (ma non poteva dipingerci l’Ara Pacis che è lì a due passi?). Poi è il turno delle fantasmagoriche e paniche visioni della bizzarra natura italiana che tanto affascinava i visitatori del nord Europa: cascate (quella delle Marmore dipinta da Thomas Patch), vulcani, (come Etna, Vesuvio, ma anche Campi Flegrei) e poi i luoghi Mito, come nelle composizioni del Ducros. E
cco poi un bellissimo ritratto dell’austriaco Anton Von Maron che ritrae il Winckelman, più italiano di tanti italiani, intento ad appuntare quanto di rilevante v’era nella penisola. Altro ritratto di un appassionato ed inventore di rovine è quello di Giovanni Battista Piranesi, dipinto da Pietro Labruzzi.
Sì certo, la mostra soffre del ricorrente vizio di molte mostre italiane: prima si guarda su cosa si possa mettere le mani e poi si dà un titolo alla mostra, ma se si riesce a non pensare che il curatore di una mostra dovrebbe avere come fine ultimo quello di dimostrare una tesi, un percorso ideale, o al contrario, contestare una consuetudine visiva o addirittura una visione del mondo, insomma se si supera la convinzione che chi cura una mostra, dovrebbe avere una teoria da corroborare, allora godetevi pure i quadri, senza altre ulteriori preoccupazioni o dubbi. Io sono sempre un incontentabile…