Se fosse stato Bob Dylan a scrivere “Il Castello di Barbablù” anzichè Béla Bártok su libretto di Béla Bálazs, forse si sarebbe potuto intitolare “I Contain Multitudes” perché , l’opera breve andata in scena sabato scorso al Teatro Coccia in prima nazionale, è una specie di seduta psicanalitica, dove il Principe Barbablù cerca in tutti i modi di convincere Judit della propria malvagità (e alla fine ci riesce).
L’opera, scritta nel 1911, non poteva certo essere immune dalle influenze che la psicanalisi avrebbe avuto in quegli anni su arte, musica, letteratura. Credo quindi occorra tenersi lontani dalla tendenza manichea che porta ad identificare Barbablù come un bieco assassino (e nelle letture contemporanee un autore seriale di femminicidi), a vantaggio di una lettura più complessa e ricca. Del resto non dimentichiamo che il canovaccio dell’opera proviene direttamente dalla fiaba di Charles Perrault e sappiamo bene, grazie alla elaborazione di Vladimir Propp, che vale per le fiabe russe, ma certamente anche per molte altre, che la fiaba contiene verità e funzioni psicanalitiche codificate. Conteniamo moltitudini, proprio come canta Bob Dylan in una delle sue più recenti fatiche musicali e Barbablù lo dimostra ampiamente.
Solo due i personaggi sulla scena, Barbablù interpretato dal basso Andrea Mastroni e la di lui moglie, Judit, il soprano Mary Elizabeth William con al centro la sala a pianta circolare del castello misterioso e cupo, ma non meglio identificato né nello spazio, né nel tempo, con le sette porte che una dopo l’altra disvelano alla malcapitata Judit i segreti del principe Barbablù: ogni stanza contiene un passato di nefandezze e di crudeltà, ma anche di meraviglie e di segni del potere. L’ultima porta è però la vera chiave di volta di tutta la vicenda, perché è dietro quella porta che Barbablù tiene nascoste (sepolte?) le altre mogli, adesso ricordate con nostalgia e tristezza dallo stesso principe, ed è proprio seguendo chi l’ha preceduta che anche Judit viene inghiottita da un crudele destino.
Molto brava Mary Elizabeth William e calata nel ruolo di Judit, più algido il basso Andrea Mastroni, regia “dinamica” di Deda Cristina Colonna che ha ben interagito con le scenografie e i costumi del novarese Matteo Capobianco che ha costruito con gusto un ambiente neutro, non connotato stilisticamente nel tempo e nello spazio, e non era affatto scontato riuscirci.
Sul podio il giovane direttore Marco Aliprando alla testa di una altrettanto giovane ma attenta orchestra, quella del Teatro Coccia di Novara. Una partitura tutt’altro che semplice, nonostante la stringatezza dell’opera, con molta politonalità e più di un cromatismo. Scritta per un’orchestra dotata di un organico molto più ampio, l’Orchestra del Teatro Coccia si è fatta apprezzare anche per la capacità di adattarsi a questa esigenza di un organico ridotto.
Proprio per la complessità della partitura, la direzione del teatro ha ritenuto opportuna una presentazione al pubblico che ha preceduto lo spettacolo. Forse un’iniziativa utile, ma a mio modo di vedere un po’ troppo didattica.