Se la mostra del Castello di Novara, “Il Mito di Venezia da Hayez alla Biennale”, curata da Elisabetta Chiodini, fosse un pacchetto di biscotti, sicuramente qualche associazione di consumatori direbbe che l’etichetta è sbagliata, forse addirittura che si tratti di pubblicità ingannevole. In arte però le cose non vanno così e il pubblico, soprattutto quello novarese, di bocca buona, non sta tanto a “cinquantarla su”,come si diceva una volta, ed è disposto a passar oltre al titolo di una mostra pur di vedere “qualche bel quadro”.
Poi però ci sono i rompiballe come me, di cui i novaresi dicono, “insuma ti se mai cuntent”, a cui piace indagare sulle cose, analizzare criticamente, discutere. Non è vero che non sono mai contento, sono stato molto contento di andare a visitare la mostra, ma “Il Mito di Venezia”, non c’è. Non c’è il mito della fondazione leggendaria della città, quello dei Dogi, quello della combattiva repubblica marinara, quello della potenza mercantile, ma nemmeno quello della commedia dell’arte, quello di Goldoni, di Vivaldi o di Giacomino Casanova e nemmeno quello di Corto Maltese.
Non che tutto ciò sia necessario per godere di una bella mostra, solo che nel titolo c’è qualcosa che poi nel contenuto scompare o quasi. Il Mito della città è pallidamente evocato solo in alcune opere, ovvero nell’imponente quadrone di Hayez intitolato “Prete Orlando da Parma inviato di Arrigo IV di Germania e difeso da Gregorio VII contro il giusto sdegno del sinodo romano” del 1857, posto all’ingresso della mostra e nella “Scena in laguna” di Antonio Zona, dove un ragazzino su una barca mette in mostra un ritratto di Vittorio Emanuele, futuro re d’Italia, con uno skyline dove si vede San Marco, la Riva degli Schiavoni e, per fortuna, nemmeno una nave della Costa Crociere, e poi nell’evanescente e “atmosferico” Bucintoro del “macchiaolo da laguna” Guglielmo Ciardi del 1903. Il “mito” finisce qui. In mezzo tuttavia c’è un’ottima pittura di genere, con qualche ambientazione veneziana (ma anche qualche ambientazione veronese, trentina ecc.), ma appunto di pittura di genere si tratta e non certo di opere che evocano il fasto o le vestigia di Venezia.
E allora, fatta questa noiosa, ma necessaria premessa, si può gustare una godibile pittura ottocentesca, sempre ricca di vitalità cromatica e compositiva. Come non lasciare che il nostro sguardo indugi sui chiaroscuri narrativi di un pittore come Ippolito Caffi, come non restare incantati dall’ameno e dinamicissimo “Girotondo” di Ettore Tito del 1886. Del già citato Guglielmo Ciardi sono di cristallina bellezza molte tele della laguna, con quell’incancellabile luce da malcelato “macchiaiolo”. Curiosi per la loro capacità narrativa anche alcuni quadri di Angelo Dall’Oca Bianca, una specie di Walter Molino dell’epoca, attratto da episodi della vita quotidiana e in grado di trasformarli in dignitosi soggetti pittorici. Un magnifico Giacomo Favretto con l’architettura, in pieno “dramma” chiaroscurale, di una casa patrizia, quella dell’eccentrica Cecilia Zen.
Di grande bellezza anche i lavori di Luigi Nono (omonimo del grande compositore).Il Nono pittore è molto più rassicurante nel pur nel vago sentimentalismo della sua pittura; suggestivo il suo “Refugium Peccatorum” (anche se riferito ad un luogo della devozione chioggiotta e non veneziana) e con la versione del quadro con la modella accovacciata a terra, vinta dalla stanchezza. Sorvolate su chi strizza l’occhio alla pittura simbolista come Mario De Maria con i suoi lugubri e inquietanti pavoni sullo sfondo notturno di un “pastiche architettonico” veneziano, altrimenti poi vi viene voglia di dar ragione a Régis Debray che contro Venezia, città troppo letteraria, scrisse addirittura un pamphlet. Il più bel quadro della mostra? A mio avviso, “Biancheria al vento” di Ettore Tito del 1901: in esso tutta la sua voglia di modernità e quel tocco di odio verso il chiaro di luna che avrebbe introdotto il tema del movimento, tanto caro ai Futuristi.
Lasciate quindi perdere il mito Venezia e godetevi la pittura di genere dell’Ottocento. Per il mito ripassate un’altra volta.