L’ensemble di cui si parla in questa grande mostra (a Palazzo Grassi a Venezia fino all’8 gennaio 2025) è il gruppo di amici-artisti con cui Julie Mehretu ha intrattenuto forti legami sia artistici, sia amicali nel corso della sua vita e precisamente Tacita Dean, Huma Bhabha, Nauiry Baghramian, David Hammons, RobinCoste Lewis, Paul Pfeiffer, Jessica Rankin. La mostra, curata mirabilmente da Caroline Bourgeois, prende in esame il periodo delle “grandi tele” che l’artista etiope, naturalizzata statunitense , incomincia a dipingere ed elaborare a cavallo degli anni Duemila e che hanno come base il disegno geometrico ed architettonico che vengono poi trattati e arricchiti da grandi e tumultuose masse di colore. Il motivo pittorico risultante da questa intersezione di grande originalità e raffinatezza, ma non certo sempre di facile interpretazione, sfugge a chi è sempre alla ricerca di messaggi anziché di emozioni. Berlino, è la prima città accennata nel disegno architettonico sottostante la gigantesca tela intitolata Rise of the New Suprematism, città oltremodo interessante, ricca di storia e di pensiero e spesso visitata dall’artista che sembra tuttavia soccombere a quel senso di atmosferico passare del tempo (quello non atmosferico): una pittura della dissoluzione delle vicende umane di fronte all’insondabile destino della natura.
Nelle due opere Black City e Invisible Line (collettive) le architetture utopiche, quasi cascami della elaborazione della politica (della polis, appunto), il colore viene a turbare la razionalità delle architetture che ubriacano l’occhio negli infiniti punti delle linee di fuga. La poetica di Julie Mehretu si nutre delle sciagure umane considerate come l’ineluttabile tragedia che segna il destino della vicenda umana su questa terra. Di grandissimo interesse anche i lavori sulla fotografia, per meglio dire fotografia e pittura. “Maahes (Mihosi) Torch” del 2018-19 è una fotografia trasmutata in opera pittorica, grazie ai radicali interventi operati sulla fotografia originale.
L’opera prende spunto dal gigantesco incendio, scoppiato nel settembre 2018, che ha distrutto il Museo Nazionale di Rio de Janeiro e che ha completamente mandato in fumo l’immenso patrimonio etnografico del museo stesso. Nel quadro, sorprendentemente, a dominare non sono le tonalità rosso-fuoco, ma le tonalità del grigio della cenere. È curioso osservare quante e quali siano le tecniche utilizzate : bomboletta spray, acrilico, inchiostro, serigrafia, matita, carboncino, spatola, insomma un’opera materica per ottenerne una figurativa, anche se vagamente figurativa, ma grande efficacia. In questa opera, come in tante altre, emerge la vena artigiana dell’artista che ha fatto della sperimentazione sulla materia, uno strumento fondamentale. Dalla metà degli anni Novanta incomincia a sperimentare anche con tecniche diverse, quali la fotoincisione, la chine-collé, l’acquatinta, l’acquaforte, la puntasecca, persino l’intaglio, lavorando in collaborazione con gli stampatori.
Un esempio del periodo è “Epigraph Damascus”(2016), un panorama sequenziale composto da sei pannelli sulla tragedia bellica che colpì la città. Con “About the space of half an hour” (2019-2020) e con “Among the Multitude” (2021-22), l’artista sembra virare verso un approccio più seriale alla pittura sempre con riflessioni centrate sul nostro tormentato mondo. Nella prima serie si fa addirittura riferimento all’Apocalisse del Nuovo Testamento, dove il fuoco, come elemento di distruzione sembra avere la meglio su tutto e su tutti: il casus belli può essere individuato nel terribile incendio del 2017 a Londra che distrusse la Grenfell Tower, ma anche le terribili rivolte popolari in Libano. Nella seconda serie invece il soggetto collettivo delle opere è il personale sanitario cinese nel primo drammatico periodo pandemico del Covid, tenendo comunque sempre lo sguardo rivolto sulle tragedie collettive che restano parte del destino degli umani e che molto hanno fecondato l’animo dell’artista.
Nella sezione dedicata alle opere tra il 2021 e il 2024 di Julie Mehretu spiccano due temi, ovvero l’assalto a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Trump e l’invasione putiniana dell’Ucraina. Si tratta di grandi fotografie trattate, sfuocate e trasformate in una eclettica materia pittorica di difficile definizione. Magnifica opera è “They departed for their own country another way” dove “un mare di fantasmi”, secondo la sua stessa definizione, vagano in un mondo di orrore o forse in un orrore di mondo. Come vuole alludere il titolo, la mostra comprende opere di altri artisti, è tuttavia inutile nascondere che, benché questi artisti facciano parte della collezione Pinault, in realtà l’accostamento, tra l’opera di Julie Mehretu e le loro opere, tranne in qualche sporadico caso, appare un po’ casuale.
Questo non infirma certamente il fatto che tra quelle esposte ci siano opere certamente interessanti. Tra queste la cosa più originale mi par essere “Incarnator”di Paul Pfeiffer del 2021, una serie di sculture iperrealiste del corpo tatuato del cantante Justin Bieber che, da quando è stato scoperto dal mercato discografico, come tanti altri, da Elvis a Michael Jackson, è chiamato ad “incarnare” (appunto), il mito dell’eterna giovinezza. Pfeiffer si ispira all’opera degli “encarnadores” che nella pittura spagnola di vari secoli si specializzarono nella raffigurazioni di reliquie corporali di santi e di Gesù Cristo.
Se vogliamo anche le tracce corporali evanescenti di David Hammons, che sembrano far parte del corpus dei disegni preparatori della Mehretu, hanno più di una ragione per essere esposti a Palazzo Grassi, per il resto il rapporto con le altre opere, pur di grande qualità, sembra un po’ labile.