Assistere al capricco teatrale “La casa del sordo”, dell’Odin Teatret di Eugenio Barba è un po’ come trovare una istantanea di cinquant’anni fa in un cassetto: la si guarda con tanta nostalgia di quegli anni, ma anche con grande tenerezza. La fotografia però è sbiadita dal passare del tempo e non ha più nulla della sua originaria brillantezza. Ecco, se mi è concesso usare una metafora, sceglierei questa per descrivere cosa ho provato assistendo sabato scorso al Teatro Menotti di Milano alla rappresentazione dell’Odin su testo di Else Marie Laukvik ed Eugenio Barba. Con la rappresentazione di sabato si è chiusa una intera settimana dedicata all’Odin Teatret con presentazioni di libri, film, laboratori e conferenze dedicati ai “60 anni dell’Odin Teatret” fondato nel 1964 da Eugenio Barba a Oslo e poi trasferitosi a
Holstebro in Danimarca. Mostro sacro dell’avanguardia teatrale, si devono a Eugenio Barba, e al suo Odin, molte delle invenzioni, delle teorie, delle provocazioni del teatro di ricerca che venne poi definito “Terzo Teatro”. L’Odin fu il luogo, fisico ed ideale, dove un attore poteva “imparare ad imparare” (secondo un celebre motto del teatro); forse più che “spettacoli” l’Odin ha sempre prodotto esperienze, performance, “training”. Oggi le potremmo chiamare “residenze”, cioè un gruppo di artisti che permangono in un dato luogo e che lavorano congiuntamente su loro stessi, cimentandosi su un tema dato. L’Odin è più che altro questo, una perenne residenza artistica che ha saputo coniugare tutte le specificità della culture locali rituali, etniche, musicali dei luoghi in cui si è svolta.
Lo sfondamento della “quarta parete”, a vantaggio di una circolarità dialettica tra performer e “spettatori”, l’abolizione del sipario, gli attori sempre in scena, l’utilizzo di materiali poveri o poverissimi (le “carabattole” di cui parlava in una intervista a “Scena” un giovane Eugenio Barba), sono queste le caratteristiche fortemente innovative dell’Odin, una specie di “agit-prop” declinato su grandi temi antropologici. E dopo questo “pippone” sull’avanguardia teatrale cosa resta da dire de “La casa del sordo”? Si tratta di un “pasticcio” teatrale ovvero “una specie di fantasia improvvisata che passa da un tema all’altro” come lo definì il compositore tedesco Michael Prætorius. Soggetto del “pastiche” è il pittore Francisco Goya, sordo totale dall’età di 46 anni, che si trova nella sua casa di Bordeaux dopo essere fuggito dalla Spagna, secondo il racconto che ne fa Leocadia Zorilla, dinnanzi allo stesso Goya nell’ultima notte della sua vita.
Il racconto tocca gli eventi politici e culturali che hanno influenzato la vita di Goya, come l’Età della Ragione, il Romanticismo, l’Inquisizione e la Rivoluzione Francese. Un’ora abbondante di spettacolo, non riesce a convincere appieno lo spettatore che non sia passato attraverso quella indispensabile iniziazione alle avanguardie artistiche teatrali degli anni Sessanta e Settanta. Un testo, ma sopratutto una mise-en-scène, per adepti votati al sacrificio teatrale (e uso questo termine senza nessuna ironia).
Il teatro come rito di evocazione non sembra più poter far parte della normale programmazione teatrale per un pubblico vasto. Occorre dire che al Teatro Menotti, Emilio Russo, direttore artistico, ha intrattenuto brevemente il pubblico su cosa stava per vedere, anzi su a cosa stava per assistere, e occorre altresì dire, che il pubblico non sembrava proprio essere capitato lì per caso e, pur tuttavia, è mancata quella ovazione finale che ci si poteva attendere, anche per la presenza il sala dello stesso Eugenio Barba.