“C’è chi l’amore lo fa per noia e c’è chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa né l’uno né l’altro, lei lo faceva per passione…”. Nulla di meglio di questo celeberrimo verso di Fabrizio De André per definire la figura di Arthur, tombarolo rabdomantico per passione, magnifico protagonista di un film incantevole, quale è “La Chimera” di Alice Rorhwacher. Arthur soprannominato l’inglese dai “tombaroli” (quelli veri) della Tuscia, ha il potere, quasi magico, di “sentire” la presenza di tombe nel sottosuolo, forse perché guidato anche dal desiderio di raggiungere quel regno dei morti dove vive l’anima (e magari il corpo) di Beniamina, suo perduto amore. L’inglese ha la sua base nella casa-rudere di una anziana e carismatica insegnante di canto, Flora (interpretata da Isabella Rossellini) alle cui dipendenze, un po’ come domestica e un po’ come allieva, c’è Italia (Carol Duarte) che sembra essere l’unica persona capace di tenere il sognante Arthur ancorato a questa terra.
Ma se i “tombaroli” hanno come unico scopo il lucro, Arthur sembra essere partecipe più del mondo dei morti che di quello dei vivi e al momento di vendere la testa di una statua ad una cinica trafficante di reperti, preferisce buttare il prezioso pezzo nelle acque di un lago, proprio per sottrarlo alla cupidigia dei trafficanti. Ma la scoperta più importante di tutte, non sarà quella di un corredo funebre, di una pittura murale o di un gruppo statuario, bensì quella che gli permetterà di ritrovare il filo che lo ricondurrà all’amata Beniamina che sembra attenderlo nel regno dei morti. Il cinema di Alice Rorwacher è principalmente un cinema dalle immagini “volutamente sporche”, poco curate, giocate addirittura su tre supporti diversi di pellicola (16 millimetri, super 16 mm e 35 mm).
Sono proprio queste immagini che ambientano alla perfezione il film negli anni Ottanta con grande realismo, senza ricorrere ai trucchetti da quattro soldi, come è accaduto di vedere di recente col finto neorealismo della Cortellesi. La differenza è tutta nel fatto che Alice Rorhwacher sa fare il cinema e sa “di cinema”: c’è in lei la forte traccia poetica di Pasolini e infatti Arthur è un “accattone” che vive in una baracca di lamiera e legno, appoggiata alle mura antiche di una città italiana (presumibilmente Tarquinia) che è parte di quella “grande bellezza” sorrentiniana, trattata però con un quid di realismo che la rende ancora più credibile. Ma si sentono anche gli echi di certi personaggi felliniani: è sufficiente per questo osservare le sequenze della sfilata carnascialesca che attraversa il paese o la stessa insegnante-matrona Flora. E poi, soprattutto, tenetevi forte, un altro “fantasma”, oltre a quello di Beniamina, aleggia in tutto il film: è lo spirito sapiente del Maestro Andrej Tarkovskij.
La campagna dell’Italia centrale, la cultura antica del Paese, le sue vestigia e Arthur stesso, che è un “matto” come lo fu Domenico, e allo stesso tempo incarna il ricercatore-romantico che in “Nostalghia” era il critico musicale Pavel Sasnowskj. Come Arthur nelle tombe etrusche, anche lui con una candela in mano attraversa la piscina di Bagno Vignoni in una della più poetiche scene della storia del cinema. Bravissima Alice! Di questo cinema dal respiro universale e profondo ha bisogno l’Italia e se lo merita! Da non perdere, nessun alibi è accettabile.