Siamo alle solite, ormai quando si va a teatro, una volta su due, il testo rappresentato non è un testo scritto per il teatro. Non che la cosa sia necessariamente negativa, ma certamente è un fatto strano che ci siano pochi nuovi testi e pochi autori che scrivano solo per il teatro: “La concessione del telefono” da Andrea Camilleri, per l’arrangiamento di Giuseppe Dipasquale, che è anche il regista dello spettacolo andato in scena la scorsa settimana allo Sterhler di Milano, non fa eccezione e ancora una volta si pesca nel mare magnum della narrativa per allestire una commedia. Al centro della trama degli equivoci del testo di Camilleri è Pippo Genuardi che, sul finire del 1800 nella provincia siciliana più profonda, chiede l’installazione di una linea telefonica con l’unico scopo di organizzare incontri clandestini con l’amata Lillina. Il fondale che accoglie lo spettatore, altro non è che la gigantografia di una lettera che ispirò lo stesso Camilleri, quella di un suo lontano parente, datata 1929 proprio per l’installazione di una linea telefonica. Certo Camilleri ci ricama un po’ su, tuttavia è palese che la protagonista di tutta la pièce è la burocrazia ottusa dell’Italia post-unitaria che è più o meno la stessa burocrazia ottusa dell’Italia contemporanea. Tutto ciò potrebbe apparire un paradosso, ma naturalmente non lo è, anche perché di mezzo c’è, naturalmente, la mafia impersonata dalla figura di Don Lollò Longhitano al quale, Pippo Genuardi protagonista del romanzo e richiedente la linea telefonica, rivela il luogo dove è nascosto il suo ex amico Sasà La Ferlita che ha con il mafioso un ingente debito. Il Genuardi, naturalmente, viene accusato di essere un sovversivo socialista a causa di varie imprecisioni nella richiesta avanzata al prefetto Marascianno per la concessione del telefono. Una storia grottesca dell’Italia post-unitaria, forse dell’Italia burocratica e ottusa tra Ottocento e Novecento, o forse una storia italiana e basta. Quella della burocrazia è certamente una forma della stupidità umana, una delle forme più indistruttibili, visto che non molto è cambiato dall’epoca in cui è ambientato il romanzo di Camilleri ad oggi. E lo spettacolo? Decisamente riuscito, anche se è evidente che la lingua eminentemente letteraria di Camilleri, sia di difficile adattamento per una rappresentazione teatrale. Si tratta, per usare un termine michelangiolesco, di allestire una pièce “per via di levare” poiché, rispetto alla ricchezza del testo, la scena depaupera un po’ la lingua. Occorre però dire che il regista Giuseppe Dipasquale è riuscito a riequilibrare questa perdita, con una messa in scena di grande qualità che strizza più di un occhio alla commedia dell’arte, a cominciare dalla connotazione dei personaggi sulla scena, come un magnifico Pippo Genuardi (interpretato da Alessio Vassallo) di rosso vestito e con tanto di bombetta che sembra un Arlecchino (effettivamente servitore di due padroni), ma anche al grande teatro comico napoletano, come la figura del prefetto Marascianno che sembra uscito da una commedia di Eduardo Scarpetta. La scena di Antonio Fiorentino, sobria ma molto mirata, e l’allestimento del Teatro Biondo di Palermo sono sicuramente degni di nota. Ora però mi piacerebbe tornare ad assistere a nuovi testi possibilmente scritti per il teatro, ma so di andare a caccia di merce rara…