Maria Brasca è certamente uno dei più originali personaggi del teatro contemporaneo italiano, forse non solo italiano. L’articolo determinativo “la” poi la caratterizza ancora meglio, dandole quella connotazione geografica e umana che la fa appartenere alla storia del teatro milanese che, pur non avendo una storia centenaria come quello napoletano, ha pur tuttavia una certa tradizione e pièces di alta qualità, tra le quali basti pensare a “El nost Milan” di Carlo Bertolazzi. “La Maria Brasca” di Giovanni Testori, messa in scena dal Teatro Franco Parenti e dal Teatro della Toscana, per la regia di Andrée Ruth Shammah e interpretata brillantemente da Maria Rocco, portava con sé, come un fardello, il ricordo indelebile di due straordinarie interpreti del personaggio: Franca Valeri negli anni Sessanta e più tardi, sempre per la regia di Shammah, Adriana Asti.
Maria è una calzettaia in una fabbrica di Niguarda nella Milano del boom economico. È una donna risoluta, che sa quel che vuole e, quel che vuole, è l’amore di Romeo, un ragazzo di periferia bello e sfaccendato, più giovane di lei e corteggiatissimo nel quartiere. Maria vive con la sorella Renata e con il di lei consorte, anch’egli donnaiolo impenitente. Maria Brasca non è però una femminista ante litteram, ma piuttosto una donna innervata da quel senso pratico milanese, disposto a scendere a compromessi pur di raggiungere l’obiettivo, che per lei è l’amore di Romeo. La pièce di Testori è tutta modellata sulla strabordante dialettica gergale della protagonista, gergo che oltre che godibilissimo da un punto di vista teatrale, disegna alla perfezione un personaggio che molti di noi, non più giovanissimi, hanno ben conosciuto nella propria infanzia: la “fabbrichina”, ovvero l’operaia disillusa, ma allo stesso tempo tenace e determinata a raggiungere un proprio sogno d’amore, che è allo stesso tempo anche il sogno della ricerca di una piccola sicurezza dei sentimenti, ma anche di una decente e stabile condizione sociale. “La Maria Brasca”, non appartiene “solo” al teatro leggero, ma è a pieno titolo uno spettacolo esistenziale e a suo modo, politico.
Renata, la sorella di Maria proletaria dimessa e precaria, come la casa dove vive e che traballa ad ogni passaggio di un treno, è l’immagine della concretezza milanese, ma anche della disillusione e della rassegnazione, mentre Maria è la combattente, disposta ad ingoiar rospi, pur di arrivare al risultato. Capitolo a sé merita la spumeggiante interpretazione di Maria Rocco, naïf e maliziosa, spietata ed ironica. Scenografia di Gianmaurizio Fercioni, degna di una periferia di Ben Shan, col sipario che si apre su “Quella cosa in Lombardia”, musicata dell’indimenticato Fiorenzo Carpi su testo di un grande poeta, Franco Fortini, toscano, ma milanese d’adozione, poesia in forma di musica, opportunamente riesumata nell’ultimo disco di Francesco Guccini “ Le canzoni da intorto.