La pulce nell’orecchio

Non nascondo che mi aveva creato una certa curiosità la scenografia “playgorund” di Guido Buganza, mi dava una certa tranquillità la regia di Carmelo Rifici, mentre il testo di Feydeau non mi entusiasmava certo, ma comunque, se vogliamo, anche il vaudeville ha il suo fascino, e un po’ di teatro crasso e “populaire” tra le tante astrusità e raffinatezze del nostro teatro, può anche non guastare. E invece no è successo tutto il contrario, sabato scorso allo Strehler con la messa in scena di “La pulce nell’orecchio” di Georges Feydeau, poiché l’unica cosa a salvarsi, paradossalmente, è stato proprio il testo perché sul resto occorrerebbe stendere il famoso velo pietoso. A cominciare dal fallito tentativo di Rifici di trasformare uno spettacolo popolare in un genere altrettanto popolare, ma che viaggia inevitabilmente su altri registri, il circo.

Gli attori trasformati n clowns, giocolieri, saltimbanchi che, oltre ad essere caratterizzati dalle cadenze dei dialetti regionali italiani, come ad esempio il torinese che parla di Vermout in torinese, la romana che “intruppa” anziché inciampare e versa lo “schiumante”, anziché lo champagne e così via, cercano di far dialogare il pubblico e concedono un po’ troppe capriole ad una pièce sostanzialmente di situazioni e di parola (o di mancanza di parola). Forse Carmelo Rifici, (aiutato, nella traduzione e nell’adattamento dal francese, da Tindaro Granata), in un delirio di onnipotenza da “quarte parete”, ha creduto per un momento di essere Carlo Emilio Gadda?

Forse che il suo scenografo Guido Buganza per un attimo ha fatto finta di essere Slava Polunin? Ci hanno provato, ma non ha funzionato. Se si volessero attualizzare i testi teatrali, per quanto meccanicamente complessi, ma sostanzialmente prevedibili, come lo sono tutti i plot narrativi di Feydeau, si dovrebbe essere geniali oppure si rischia di metter in scena delle banalità. E questo secondo caso, è il nostro.

Si è riusciti a far perdere quel poco di apprezzabile che un autore come Feydeau sapeva offrire al proprio pubblico (e che è molto più difficile da offrire al pubblico di oggi), ovvero la costruzione ingegneristica di situazioni comiche che funzionano attraverso ingranaggi di imprevedibilità e sorpresa, il tutto in un “milieu” borghese e parigino messo alla berlina proprio attraverso il comico.

Si salvano solo gli attori formati tutti alla Scuola del Piccolo Teatro, sempre professionali ed appassionati, nel complesso esperimento fallito, “playground compresi”.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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La pulce nell’orecchio

Non nascondo che mi aveva creato una certa curiosità la scenografia “playgorund” di Guido Buganza, mi dava una certa tranquillità la regia di Carmelo Rifici, mentre il testo di Feydeau non mi entusiasmava certo, ma comunque, se vogliamo, anche il vaudeville ha il suo fascino, e un po’ di teatro crasso e “populaire” tra le tante astrusità e raffinatezze del nostro teatro, può anche non guastare. E invece no è successo tutto il contrario, sabato scorso allo Strehler con la messa in scena di “La pulce nell’orecchio” di Georges Feydeau, poiché l’unica cosa a salvarsi, paradossalmente, è stato proprio il testo perché sul resto occorrerebbe stendere il famoso velo pietoso. A cominciare dal fallito tentativo di Rifici di trasformare uno spettacolo popolare in un genere altrettanto popolare, ma che viaggia inevitabilmente su altri registri, il circo.

Gli attori trasformati n clowns, giocolieri, saltimbanchi che, oltre ad essere caratterizzati dalle cadenze dei dialetti regionali italiani, come ad esempio il torinese che parla di Vermout in torinese, la romana che “intruppa” anziché inciampare e versa lo “schiumante”, anziché lo champagne e così via, cercano di far dialogare il pubblico e concedono un po’ troppe capriole ad una pièce sostanzialmente di situazioni e di parola (o di mancanza di parola). Forse Carmelo Rifici, (aiutato, nella traduzione e nell’adattamento dal francese, da Tindaro Granata), in un delirio di onnipotenza da “quarte parete”, ha creduto per un momento di essere Carlo Emilio Gadda?

Forse che il suo scenografo Guido Buganza per un attimo ha fatto finta di essere Slava Polunin? Ci hanno provato, ma non ha funzionato. Se si volessero attualizzare i testi teatrali, per quanto meccanicamente complessi, ma sostanzialmente prevedibili, come lo sono tutti i plot narrativi di Feydeau, si dovrebbe essere geniali oppure si rischia di metter in scena delle banalità. E questo secondo caso, è il nostro.

Si è riusciti a far perdere quel poco di apprezzabile che un autore come Feydeau sapeva offrire al proprio pubblico (e che è molto più difficile da offrire al pubblico di oggi), ovvero la costruzione ingegneristica di situazioni comiche che funzionano attraverso ingranaggi di imprevedibilità e sorpresa, il tutto in un “milieu” borghese e parigino messo alla berlina proprio attraverso il comico.

Si salvano solo gli attori formati tutti alla Scuola del Piccolo Teatro, sempre professionali ed appassionati, nel complesso esperimento fallito, “playground compresi”.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.