Quando si commenta un film, un libro, uno spettacolo teatrale, occorrerebbe sempre pensare alla cosiddetta “autonomia del significante”. Ogni film, libro, opera teatrale o altro dovrebbero essere giudicati al di là delle nostre convinzioni personali o delle nostre scelte esistenziali, religiose, politiche ecc.
Naturalmente non sempre questo è possibile ma, data per accettata, l’autonomia del significante, prima che io commenti “Le otto Montagne” di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch (dal romanzo di Paolo Cognetti), è meglio che sappiate che quando vado in montagna (raramente), dopo un paio d’ore incomincio a guardare l’orologio e mi chiedo se non sia ora di tornare a casa. Sono un “animale” urbano e quindi, come dice Woody Allen, “non vivrei mai nello Iowa, anche perché non so nemmeno dove sia”. Fatta questa premessa non doverosa, ma necessaria, credo che “Le otto montagne” sia davvero un bel film, non tanto per il messaggio che contiene e che io non condivido. La storia è ormai nota: Pietro, bambino di città (Torino), con un padre ingegnere e Bruno, figlio di un montanaro e montanaro lui stesso, stringono una profonda amicizia proprio grazie alla vacanze estive di Pietro, bambino di città, nelle montagne di Bruno, un’amicizia che durerà tutta la vita, con annessi e connessi di amori, aspirazioni, difficoltà. Ma se per Pietro la montagna è soprattutto motivo di riflessione esistenziale e in un certo senso filosofica, per Bruno la montagna è l’unico possibile orizzonte di vita, tanto da dedicare ad essa, e vivere in essa, tutta la propria esistenza. Dopo, aver incontrato la donna della sua vita e averla portata con sé in questa scelta di vita, Bruno si accorge che vivere “di” montagna è difficile, se non impossibile, ma la sua scelta non dipende da questioni materiali, poiché la montagna è immanente nell’anima di Bruno, mentre non lo è in quella dell’amico Pietro, che pur amandola non ne fa una ragione di vita. Film ben confezionato, dal buon ritmo narrativo, con un’adeguata fotografia “wildness style”, a cui si aggiungono le buone interpretazioni di Alessandro Borghi, nella parte di Bruno, e di Luca Marinelli, nella parte di Pietro. Magari, con un po’ più di attenzione da parte dei due registi si sarebbe potuto ovviare a qualche ingenua incongruenza, come la cadenza lombarda dei due protagonisti, più da Valtellina che da Alpi occidentali.
Volendo cavillare, anche la scelta della colonna sonora avrebbe potuto essere un po’ meno country, che fa molto “west”, ma che sembra un po’ in contrasto con la “mission” del film che è, indubbiamente, quello di raccontare il legame quasi embrionale di un uomo con l’ambiente che lo circonda. Mito del buon selvaggio? Natura matrigna? Ecologismo? Niente di tutto ciò, solo una storia, magari non originalissima, ma che funziona sempre e sulla quale è certamente possibile girare un film con un buon risultato.