Che “Bella ciao” sia ormai un canto di protesta contro gli oppressori ed un inno alla libertà, è ormai universalmente riconosciuto. Naturalmente lo era anche nel 2010, quando Liliana Moro lo scelse per una essenziale ma toccante installazione sonora che è stata ricostruita nella sala d’ingresso del Pac di Milano in occasione della mostra, appena conclusasi ed intitolata “Andante con moto”. La sequenza continua di varie versioni in molte lingue, fuoriesce da una tromba acustica che pende dal soffitto: quasi una dichiarazione d’intenti, messa in grande evidenza, prima che il visitatore intraprenda il percorso verso le (altre) opere.
Sulla parete di fondo una gigantografia in b/n del paesaggio industriale di Milano visto da via Breda, quartiere Bicocca, prima della sua trasformazione in zona universitaria, che sembra manifestare un desiderio di affermazione identitaria dell’artista. “Andante con moto” è una mostra da vedere e da ascoltare, come già fa presumere il titolo. Il suono, con le sue potenzialità comunicative e, perché no, ideologiche, è un mezzo ampiamente utilizzato dall’artista italiana nelle installazioni ambientali. E non è una novità che oggi, sempre più spesso, gallerie d’arte, spazi espositivi e musei, lo utilizzino per “accompagnare” le opere esposte. Siamo quindi in presenza di un avvenimento precursore di tendenze che sembrano ormai avere sempre più spazio.
“Le nomadi” è una essenziale installazione costituita da una serie di zaini e zainetti, depositati a terra, dai quali fuoriescono famose arie d’opera cantate da Maria Callas, alternate e confuse con piste sonore che riproducono il rumore dell’acqua che scorre, e dedicata idealmente alle donne che hanno avuto un certo peso nella vita dell’artista. Si può dire che sue opere il suono diventi una sorta di architettura, capace di modellare gli spazi e di dar loro senso. Per Liliana Moro, l’estetizzazione dell’opera sembra essere un ostacolo al suo diretto intento comunicativo che è il vero scopo del suo agire. In “Moi” questo obiettivo risulta più evidente che mai: in questa installazione del 2012, dodici casse acustiche su lineari supporti e disposte in cerchio con la nota dell’artista che dice: “Studio per un probabile equilibrio in movimento”.
Poi un’opera del 1977 dove due donne legate tra loro fanno suonare una nota su una pianola ancorata al fianco di una delle due donne (Liliana Moro stessa). Bisogna ammettere che l’operazione appare piuttosto cervellotica e che i risultati non sembrano essere efficaci come la macchinazione messa in atto. Anche “La passeggiata” del 1988 sembra un’opera molto macchinosa: una distesa di pattini a rotelle che, sprovvisti di legacci, divengono di fatto inutilizzabili.
La controsignificanza dell’opera però, oltre a non essere una novità, risulta anche un po’ stantia. Posizionata nel centro di Novi Ligure, durante la notte veniva modificata da nottambuli passanti, ma resta sempre un po’ pochino per costruirci intorno profonde teorie. Molto più interessante la serie di copertine della rivista “Internazionale” (un anno di numeri dal 2008 al 2009) accostate sistematicamente all’oroscopo dell’artista (capricorno) pubblicate dalla rivista stessa. Una riflessione sulla arbitrarietà, ma anche una riflessione sulla aleatorietà del caso in rapporto a grandi eventi mondiali. Un pavimento coperto da vetri rotti, che sotto i passi del visitatori si sbriciolano ulteriormente, modificano l’aspetto sia visivo che sonoro dell’ambiente.
Probabilmente durante il suo primo allestimento presso la galleria Emi Fontana di Milano, l’installazione ebbe molta più risonanza ed anche un maggior significato; oggi sembra invecchiata male e quindi diventata banale. Altrettanto non indimenticabile o quanto meno, molto datata, mi sembra essere “Spazio libero” del 1989, installazione site specific per Soncino alle porte di Cremona. Si tratta di una grande scritta di colore giallo fissata ad un supporto d’acciaio. Sullo stesso filone di una iconicità un po’ forzata e ricercata, ecco “Avvinghiatissimi”, un letto in legno a cui sono fissati, tramite cinghie rosse, dei grandi fogli di “gomma-schiuma” e due casse acustiche che propongono “Regreso de amor”, un tango argentino di Astor Piazzolla. Messaggio semplice e diretto quello di “In onda”, ambiente buio illuminato dalla sagoma al neon di un pesce azzurro.
Ancora una volta siamo invitati all’ascolto dei fondali marini della riserva del WWF di Miramare a Trieste dove sono stati registrati i suoni del fondale stesso. Anche in questo caso siamo in presenza di una ricerca sociologica e psicologica più che ad un gesto artistico. “Spazi” è invece una installazione del 2019 per la Biennale di Venezia; si tratta di una serie di piccoli modelli di ambienti espositivi, realizzati con materiali delicati e comuni, come carta, cellophane, cartoncino, balsa che mostrano volutamente le loro imperfezioni. L’intento è quello di proporre modellini che ricreino un luogo espositivo, rimodulando sempre lo stesso spazio e la sua coniugazione con diversi materiali. Naturalmente sono poi stati concretamente realizzati. Tornando alle installazioni visive, nel grande soppalco del PAC sono esposte le magnifiche immagini di “Voci”, grandi immagini tratte dalla stampa e che riproducono persone intente a parlare al megafono facendosi così portatori di voce di un gruppo o di una comunità che, al di là del messaggio trasmesso, hanno in comune questo tentativo di trasformare le singole voci, nelle voci di un gruppo, in contesti quali la strada, le piazze delle manifestazioni di massa.
Dall’installazione è stato tratto anche un prezioso volume con il medesimo titolo. Sempre al piano superiore ecco l’installazione che dà il titolo all’intera mostra, ovvero “Andante con moto” (2023). “L’ultimo nastro di Kapp” è un’opera teatrale di Samuel Beckett e proprio da quest’opera sono tratti i testi che escono, unitamente a rumori e suoni, dalle casse acustiche posizionate al centro della sala unitamente ad una buccia di banana e alla gigantesca riproduzione in cemento di una banana (frutto presente nel dramma teatrale di Beckett), omaggio al grande drammaturgo attraverso una scena scarna come scarni sono i suoi testi, ma molto suggestiva e direi anche emozionante.
Una mostra con forti chiaro-scuri con opere che forse non trasmettono più quel magnetismo che potevano avere in altri anni e in altri decenni e tematiche che sembrano ormai scomparse dai radar del pubblico anche più smaliziato.