Sembra proprio che i registi teatrali siano a corto di copioni per il palcoscenico e infatti, sempre più spesso, si mettono in scena testi di narrativa o addirittura saggi scientifici o filosofici. Non è un caso, credo, che i due ultimi spettacoli a cui ho assistito, “Il barone rampante” da Italo Calvino per la regia di Riccardo Preti e “L’interpretazione dei sogni” da Sigmund Freud, siano annoverabili tra le riscritture o gli adattamenti per il teatro. In cartellone nella stagione del Piccolo compare anche “I Promessi sposi messi alla prova” di Giovanni Testori che, benché sia un soggetto per il teatro, è pur sempre un testo che fa specifico riferimento ad un’opera letteraria.
La stessa cosa è avvenuta spesso nella stagione teatrale dello scorso anno a Milano e altrove. Insomma quattro indizi fanno una prova. Trasporre per il teatro la più celebrata opera dell’inventore della psicanalisi era certo una sfida da far tremare i polsi. Come già accennato, nell’impresa si è cimentato Stefano Massini, quasi sicuramente il “teatrante” più completo del momento e lo ha fatto ottenendo un brillante risultato, anche se la monumentale opera di Freud potrebbe sembrare un po’ depauperata dal punto di vista scientifico.
E’ quasi inutile ricordare che al momento della pubblicazione, nel 1899, l’opera di Freud provocò un grande interesse, ma anche un enorme scandalo, dato che il sogno non era ancora razionalmente considerato un fatto oggettivo per fare luce sulla personalità dell’uomo (e a maggior ragione della donna). Se a questo aggiungiamo la teoria per cui nella mente umana opera, secondo Freud, una sorta di censura del Super-Io verso le perturbanti pulsioni dell’Es, ci appare chiaro come la società borghese (si potrà ancora dire “società borghese”?), non potesse accettare di buon grado tutte le tormentate e tortuose spiegazioni del professore ebreo.
Per chi ha letto l’opera, il racconto che ne fa il Massini-Freud può apparire magari eccessivamente sintetico, a cominciare dalla narrazione del celebre sogno di Betta (la domestica francese di casa Freud), dove la donna sognava di avere “froid”, segno del malessere inconscio della donna a lavorare nella casa dello psicanalista. È oggettivamente vero che il rischio di queste operazione è quello di trasformare una pièce teatrale in qualcosa di troppo didascalico, rischio che Massini da grande affabulatore (siamo abituati solitamente a vederlo nei panni del drammaturgo e del regista) ha saputo abilmente evitare. Scena essenziale, tre musicisti sul palco con l’autore-attore e regista, violino, trombone e chitarra elettrica, quest’ultima inaspettata, che rendono il clima novecentesco poco “Austria Felix” e un po’ Jim Jarmush-Bill Frisell, ma va bene così.
E lui, Stefano Massini? Ovviamente bravo, magari con qualche tocco di istrionismo un po’ sopra le righe, che mal si concilia con le vesti professorali di Sigmund Freud, ma che nel complesso, grazie ad un monologo fluente e a tratti impetuoso, conquista lo smaliziato pubblico del Grassi. Lo spettacolo, co-prodotto da Piccolo Teatro, Stabile di Bolzano, Teatro di Roma e Fondazione Teatro della Toscana, ha affascinato lo smaliziato pubblico del Teatro Grassi.
Ora però i drammaturghi si diano una mossa, poiché se è sempre un bell’esercizio adattare e trasporre un testo per il teatro, sarebbe bello vedere anche qualche nuovo copione sulle tante possibili tematiche contemporanee.