Vado sempre a vedere i film di Pedro Almodóvar per dovere perché credo che non mi piacciano, poi alla fine mi piacciono (quasi),sempre. So anche perché poi mi piacciono: perché in essi, solitamente nella seconda parte, c’è sempre una sorta di agnizione. “Madres Paralelas” non fa eccezione, poiché al solito inizio lento, faticoso, noioso e prevedibile, d’un tratto la vicenda prende ad appassionare.

Si tratta di una microstoria in una macrostoria: la vicenda della microstoria tratta della maternità “paralelas” di due donne, Janis, donna adulta e Ana, adolescente, entrambe incinte senza volerlo che si trovano a condividere una stanza di un ospedale nel quale le culle delle due nasciture vengono scambiate. Non è un’idea nuovissima nella storia del cinema, ma Almodóvar sa inserire questa vicenda drammatica e grottesca, la microstoria, in una di più ampio respiro, la Storia, con la essa maiuscola. Janis infatti è rimasta incinta dopo un rapporto con Arturo, un antropologo forense incaricato da Janis di eseguire uno scavo nel paese natio, volto a riportare alla luce il cadavere del nonno e di altri parenti assassinati dalla falange franchista.

Cosa lega le due vicende? Il DNA, è infatti grazie ad un’analisi del DNA che Arturo riesce a risalire all’identità del nonno di Janis ed è sempre grazie al DNA che Janis scopre che la vera madre della sua bambina è Ana, la cui figlia è nel frattempo morta nella culla a causa di un soffocamento notturno. Non si tratterebbe di un “Almodóvar D.O.C.” se tra le due donne, prima dell’agnizione neonatale, non si fosse manifestato anche un amore lesbico. Tutto nella cifra stilistica del regista spagnolo, ma tutto egregiamente raccontato e soprattutto magnificamente inserito nel contesto della macrostoria della dittatura fascista del Caudillo, Francisco Franco.

Questa capacità di raccontare storie nella Storia, è una della grandi doti di Pedro Almodóvar, che pur non rinuncia mai a raccontare amori che al di là della diversità di genere sono l’Amore. C’è un’altra cosa a cui il regista non rinuncia mai ed è la cosa che me lo rende indigesto al principio di ogni film: i colori vividi degli oggetti, dei vestiti, il design “sottsassiano” e forzosamente originale dei suoi arredi, il nitore delle superfici, a cominciare dalle porte che molto spesso si aprono e si chiudono sulla faccia dello spettatore, quasi a sancire il ritmo dello storyboard.

Mi sia permesso di ringraziare Luciana, una cara amica tornata al cinema dopo una lunga convalescenza, che mi ha fatto riflettere sul film e mi ha aiutato ad abbattere, definitivamente, un pregiudizio che nutrivo nei confronti di Pedro Almodóvar, forse uno dei più grandi registi viventi.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Madres paralelas

Vado sempre a vedere i film di Pedro Almodóvar per dovere perché credo che non mi piacciano, poi alla fine mi piacciono (quasi),sempre. So anche perché poi mi piacciono: perché in essi, solitamente nella seconda parte, c’è sempre una sorta di agnizione. “Madres Paralelas” non fa eccezione, poiché al solito inizio lento, faticoso, noioso e prevedibile, d’un tratto la vicenda prende ad appassionare.

Si tratta di una microstoria in una macrostoria: la vicenda della microstoria tratta della maternità “paralelas” di due donne, Janis, donna adulta e Ana, adolescente, entrambe incinte senza volerlo che si trovano a condividere una stanza di un ospedale nel quale le culle delle due nasciture vengono scambiate. Non è un’idea nuovissima nella storia del cinema, ma Almodóvar sa inserire questa vicenda drammatica e grottesca, la microstoria, in una di più ampio respiro, la Storia, con la essa maiuscola. Janis infatti è rimasta incinta dopo un rapporto con Arturo, un antropologo forense incaricato da Janis di eseguire uno scavo nel paese natio, volto a riportare alla luce il cadavere del nonno e di altri parenti assassinati dalla falange franchista.

Cosa lega le due vicende? Il DNA, è infatti grazie ad un’analisi del DNA che Arturo riesce a risalire all’identità del nonno di Janis ed è sempre grazie al DNA che Janis scopre che la vera madre della sua bambina è Ana, la cui figlia è nel frattempo morta nella culla a causa di un soffocamento notturno. Non si tratterebbe di un “Almodóvar D.O.C.” se tra le due donne, prima dell’agnizione neonatale, non si fosse manifestato anche un amore lesbico. Tutto nella cifra stilistica del regista spagnolo, ma tutto egregiamente raccontato e soprattutto magnificamente inserito nel contesto della macrostoria della dittatura fascista del Caudillo, Francisco Franco.

Questa capacità di raccontare storie nella Storia, è una della grandi doti di Pedro Almodóvar, che pur non rinuncia mai a raccontare amori che al di là della diversità di genere sono l’Amore. C’è un’altra cosa a cui il regista non rinuncia mai ed è la cosa che me lo rende indigesto al principio di ogni film: i colori vividi degli oggetti, dei vestiti, il design “sottsassiano” e forzosamente originale dei suoi arredi, il nitore delle superfici, a cominciare dalle porte che molto spesso si aprono e si chiudono sulla faccia dello spettatore, quasi a sancire il ritmo dello storyboard.

Mi sia permesso di ringraziare Luciana, una cara amica tornata al cinema dopo una lunga convalescenza, che mi ha fatto riflettere sul film e mi ha aiutato ad abbattere, definitivamente, un pregiudizio che nutrivo nei confronti di Pedro Almodóvar, forse uno dei più grandi registi viventi.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.