Mario Martone, “Nostalgia”

Nel 1983 il grande regista russo Andrej Tarkovskij diresse un film-capolavoro intitolato “Nostalghia” che raccontava del soggiorno del poeta Adrej Gorčakov nel nostro paese, per scrivere una biografia sul compositore del XVIII secolo, Adreij Sosnovskij.

Nessun apparente legame, se non nel titolo, con il magnifico film di Mario Martone, “Nostalgia” tratto dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea (edito nel 2016). Eppure io non sono del tutto convinto che Mario Martone, coltissimo regista cinematografico, ma soprattutto teatrale (e vale la pena ricordarlo), non abbia avuto questo “pensiero proibito”. Felice (un grande Pierfrancesco Favino), torna a Napoli dopo aver vissuto quarant’anni tra Libano ed Egitto ed essere diventato un imprenditore di successo e ci torna per ritrovare la vecchia madre e per dar alimento alla propria memoria (eviterei di usare “le proprie radici”, espressione ormai svuotata di senso dal logorio dell’uso). Qui le “madeleine” proustiane sanno di “friarielli”, e Combray è Napoli, ma i processi mentali sono ovviamente i medesimi, con il piccolo particolare che non c’è Charles Swann, ma Oreste Spasiano (bravo Tommaso Ragno), camorrista del Rione Sanità (quello della commedia di Eduardo De Filippo, trasposto in film dallo stesso Martone nel 2019). E la nostalgia di Tarkovskij cosa c’entra, anzi “che c’azzecca”? Se ad aspettare Felice a Napoli c’è, oltre alla vecchia madre che morirà di lì a poco, anche Oreste Spasiano, ad aspettare in Italia Gorčakov, c’era Domenico, vecchio saggio e un po’ pazzo, isolato e solitario come il camorrista.

Gorčakov tenta di portare a termine una missione impossibile, attraversare la piazza-piscina di Bagno Vignoni con una candela accesa tra le mani e anche Felice tenta una missione impossibile, riconciliarsi con l’amico d’infanzia, ora malvagio assassino, di cui fu complice in gioventù in una rapina finita male che fu poi il motivo della sua fuga verso il Libano. In mezzo c’è un prete “accogliente” e progressista che paradossalmente cerca di dissuaderlo, e a ragione, visto che Felice verrà ucciso dall’ex-amico. Il parallelismo con Tarkovskij è sicuramente azzardato, e forse anche aleatorio, in considerazione che il film è tratto dal libro di Rea, ma è indubbiamente suggestivo. Certamente non è un caso che la “nostalgia”, sia per Tarkovskij che per Martone, si sposi meravigliosamente con l’Italia, terra di tormenti, ma anche di riflessioni profonde e di umanità dolenti.

Lasciando perdere le divagazioni personali, quello di Martone è un film-gioiello, uno dei tanti del grande regista partenopeo, che vede ancora una volta Napoli come un luogo della mitopoiesi dei sentimenti più intensi. Impossibile non pensare all’ultimo Sorrentino di “È stata la mano di Dio”, ma qui siamo “oltre”, siamo nell’archeologia dell’animo umano. Sceneggiatura pressoché perfetta, fotografia senza orpelli, scenografia naturale, quella di una città che sembra essere nata per essere raccontata, meglio se da qualcuno come Martone (e Rea), che lo sa fare e lo sa fare come nessun’altro.

Cannes, forse non può nemmeno lontanamente capire…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Nel 1983 il grande regista russo Andrej Tarkovskij diresse un film-capolavoro intitolato “Nostalghia” che raccontava del soggiorno del poeta Adrej Gorčakov nel nostro paese, per scrivere una biografia sul compositore del XVIII secolo, Adreij Sosnovskij.

Nessun apparente legame, se non nel titolo, con il magnifico film di Mario Martone, “Nostalgia” tratto dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea (edito nel 2016). Eppure io non sono del tutto convinto che Mario Martone, coltissimo regista cinematografico, ma soprattutto teatrale (e vale la pena ricordarlo), non abbia avuto questo “pensiero proibito”. Felice (un grande Pierfrancesco Favino), torna a Napoli dopo aver vissuto quarant’anni tra Libano ed Egitto ed essere diventato un imprenditore di successo e ci torna per ritrovare la vecchia madre e per dar alimento alla propria memoria (eviterei di usare “le proprie radici”, espressione ormai svuotata di senso dal logorio dell’uso). Qui le “madeleine” proustiane sanno di “friarielli”, e Combray è Napoli, ma i processi mentali sono ovviamente i medesimi, con il piccolo particolare che non c’è Charles Swann, ma Oreste Spasiano (bravo Tommaso Ragno), camorrista del Rione Sanità (quello della commedia di Eduardo De Filippo, trasposto in film dallo stesso Martone nel 2019). E la nostalgia di Tarkovskij cosa c’entra, anzi “che c’azzecca”? Se ad aspettare Felice a Napoli c’è, oltre alla vecchia madre che morirà di lì a poco, anche Oreste Spasiano, ad aspettare in Italia Gorčakov, c’era Domenico, vecchio saggio e un po’ pazzo, isolato e solitario come il camorrista.

Gorčakov tenta di portare a termine una missione impossibile, attraversare la piazza-piscina di Bagno Vignoni con una candela accesa tra le mani e anche Felice tenta una missione impossibile, riconciliarsi con l’amico d’infanzia, ora malvagio assassino, di cui fu complice in gioventù in una rapina finita male che fu poi il motivo della sua fuga verso il Libano. In mezzo c’è un prete “accogliente” e progressista che paradossalmente cerca di dissuaderlo, e a ragione, visto che Felice verrà ucciso dall’ex-amico. Il parallelismo con Tarkovskij è sicuramente azzardato, e forse anche aleatorio, in considerazione che il film è tratto dal libro di Rea, ma è indubbiamente suggestivo. Certamente non è un caso che la “nostalgia”, sia per Tarkovskij che per Martone, si sposi meravigliosamente con l’Italia, terra di tormenti, ma anche di riflessioni profonde e di umanità dolenti.

Lasciando perdere le divagazioni personali, quello di Martone è un film-gioiello, uno dei tanti del grande regista partenopeo, che vede ancora una volta Napoli come un luogo della mitopoiesi dei sentimenti più intensi. Impossibile non pensare all’ultimo Sorrentino di “È stata la mano di Dio”, ma qui siamo “oltre”, siamo nell’archeologia dell’animo umano. Sceneggiatura pressoché perfetta, fotografia senza orpelli, scenografia naturale, quella di una città che sembra essere nata per essere raccontata, meglio se da qualcuno come Martone (e Rea), che lo sa fare e lo sa fare come nessun’altro.

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