Mirdidingkingathi Juwarnda Sally Gabori, l’impronunciabile artista aborigena

Fino al 6 novembre prossimo alla Fondation Cartier pour l’Art Contemporaine di Parigi, si può visitare una singolare esposizione di una artista australiana che ha cominciato a dipingere nel 2005 all’età di ottant’anni. Ma la singolarità non sta, naturalmente, solo nell’età inconsueta per il debutto di un’artista. Del resto la fondazione del Boulevard Raspail, ha sempre proposto mostre molto originali e dal taglio “etnografico-ambientalista” per usare una scorciatoia linguistica. Un po’ lo stesso taglio delle mostre della Triennale di Milano che non per nulla collabora spesso con la fondazione parigina. Ma non divaghiamo e torniamo a Sally Gabori, nata sull’isola di Bentnick che fa parte dell’arcipelago australiano delle isole Wellesley a nord del grande paese australe. Sally Gabori apparteneva al popolo Kaiadilt, originario di quelle isole. Quando nel 1948 un ciclone , distrusse completamente l’isola, restarono meno di un centinaio di abitanti e la stessa Gabory fu costretta con la famiglia a trovare rifugio presso la missione presbiteriana nella vicina isola di Mornington.

Qui l’ospitalità dei presbiteriani non fu certo a costo zero, visto che i religiosi negarono i più elementari diritti ai nativi, fino ad arrivare a proibire ai Kaiadilt di parlare la loro lingua. Ma è qui, nonostante tutto, che verso gli anni Ottanta, Sally incomincia a frequentare il centro d’arte dove matura la decisione di celebrare la sua terra e il suo mare natii. “Ecco la mia terra, il mio mare, quella che io sono” scrive Sally Gabori. Celebrare la propria terra natia in pittura non è cosa nuova, ma le gigantesche tele apparentemente astratte dell’artista australiana, non sono così consuete. Nelle due grandi sale espositive al piano terra della Fondation Cartier sono presentate grandi tele che nascono come omaggio alla località di Thundi realizzate in collaborazione con altri artisti kaiadilt. Al piano inferiore opere che celebrano altri due luoghi dell’isola: Didirdibi e Nyinyilki.

Chi fosse arrivato a leggere fino a questo punto il mio commento, potrebbe chiedersi cosa ci sia di tanto originale nella pittura di Sally Gabori. A costoro potrei assicurare che se i curatori della Fondation Cartier decidono di portare, da una remota isola australiana, Mirdidingkingathi Juwarnda Sally Gabory, nel cuore di Montparnasse a due passi dalla Coupole e da tanti luoghi leggendari per la cultura del Novecento, qualche motivo ci sarà. Le tele di Sally Gabory, sono gigantesche carte topografiche del sentimento, ma spesso anche carte topografiche vere e proprie, come nel caso “Sweers Island” o “Makarrki” entrambe del 2008. Rappresentazioni zenitali di accecante colorismo, dove l’astrattismo è del tutto involontario e per questo forse, ancora più credibile. Ogni sua tela è ispirata dalle variazioni infinite della luce di queste latitudini e dal clima violentemente mutevole del grande golfo di Carpentaria.

In fondo l’astrattismo nasce contestualmente al mondo, e anche con la sua rappresentazione. Basta guardare l’ansa coloratissima del fiume in “Thundi-Big River” del 2010 per rendersene conto e Sally Gabori è certamente un’artista vera. Qualche parola va spesa anche per la Fondation Cartier che presenta sempre mostre originalissime, ho ancora negli occhi le straordinarie fioriture di Damien Hirst dello scorso anno, mostre che hanno sempre un affascinante e forte legame con la natura e con il nostro pianeta.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Mirdidingkingathi Juwarnda Sally Gabori, l’impronunciabile artista aborigena

Fino al 6 novembre prossimo alla Fondation Cartier pour l’Art Contemporaine di Parigi, si può visitare una singolare esposizione di una artista australiana che ha cominciato a dipingere nel 2005 all’età di ottant’anni. Ma la singolarità non sta, naturalmente, solo nell’età inconsueta per il debutto di un’artista. Del resto la fondazione del Boulevard Raspail, ha sempre proposto mostre molto originali e dal taglio “etnografico-ambientalista” per usare una scorciatoia linguistica. Un po’ lo stesso taglio delle mostre della Triennale di Milano che non per nulla collabora spesso con la fondazione parigina. Ma non divaghiamo e torniamo a Sally Gabori, nata sull’isola di Bentnick che fa parte dell’arcipelago australiano delle isole Wellesley a nord del grande paese australe. Sally Gabori apparteneva al popolo Kaiadilt, originario di quelle isole. Quando nel 1948 un ciclone , distrusse completamente l’isola, restarono meno di un centinaio di abitanti e la stessa Gabory fu costretta con la famiglia a trovare rifugio presso la missione presbiteriana nella vicina isola di Mornington.

Qui l’ospitalità dei presbiteriani non fu certo a costo zero, visto che i religiosi negarono i più elementari diritti ai nativi, fino ad arrivare a proibire ai Kaiadilt di parlare la loro lingua. Ma è qui, nonostante tutto, che verso gli anni Ottanta, Sally incomincia a frequentare il centro d’arte dove matura la decisione di celebrare la sua terra e il suo mare natii. “Ecco la mia terra, il mio mare, quella che io sono” scrive Sally Gabori. Celebrare la propria terra natia in pittura non è cosa nuova, ma le gigantesche tele apparentemente astratte dell’artista australiana, non sono così consuete. Nelle due grandi sale espositive al piano terra della Fondation Cartier sono presentate grandi tele che nascono come omaggio alla località di Thundi realizzate in collaborazione con altri artisti kaiadilt. Al piano inferiore opere che celebrano altri due luoghi dell’isola: Didirdibi e Nyinyilki.

Chi fosse arrivato a leggere fino a questo punto il mio commento, potrebbe chiedersi cosa ci sia di tanto originale nella pittura di Sally Gabori. A costoro potrei assicurare che se i curatori della Fondation Cartier decidono di portare, da una remota isola australiana, Mirdidingkingathi Juwarnda Sally Gabory, nel cuore di Montparnasse a due passi dalla Coupole e da tanti luoghi leggendari per la cultura del Novecento, qualche motivo ci sarà. Le tele di Sally Gabory, sono gigantesche carte topografiche del sentimento, ma spesso anche carte topografiche vere e proprie, come nel caso “Sweers Island” o “Makarrki” entrambe del 2008. Rappresentazioni zenitali di accecante colorismo, dove l’astrattismo è del tutto involontario e per questo forse, ancora più credibile. Ogni sua tela è ispirata dalle variazioni infinite della luce di queste latitudini e dal clima violentemente mutevole del grande golfo di Carpentaria.

In fondo l’astrattismo nasce contestualmente al mondo, e anche con la sua rappresentazione. Basta guardare l’ansa coloratissima del fiume in “Thundi-Big River” del 2010 per rendersene conto e Sally Gabori è certamente un’artista vera. Qualche parola va spesa anche per la Fondation Cartier che presenta sempre mostre originalissime, ho ancora negli occhi le straordinarie fioriture di Damien Hirst dello scorso anno, mostre che hanno sempre un affascinante e forte legame con la natura e con il nostro pianeta.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.