Nari Ward, un geniale rigattiere

In fondo chi è Nari Ward se non un geniale rigattiere? Vecchie sedie, carrelli del supermercato, lacci, stracci, passeggini, insegne…che poi non è sicuramente molto importante cosa raccatti in giro per le strade, ma come assembli questi “oggetti” e, soprattutto, perché lo faccia. Sembra proprio che le sue opere d’arte siano tali, loro malgrado, e senza nessuna ombra di presunzione, per così dire. Nato a St. Andrew in Giamaica e catapultato a “BigMango” (Harlem), nel cuore della Grande Mela, Nari spera di diventare un disegnatore, ma in realtà si scopre collezionista e riciclatore di rifiuti solidi urbani. C’è sempre qualcosa di irresistibile negli oggetti abbandonati e nella spazzatura e l’arte contemporanea ne ha fatto una propria miniera inesauribile di novità, sia detto senza ironia alcuna. Il “rifiuto”, in una società iperconsumistica, è diventato oltremodo importante per gli artisti, proprio in quanto scoria materiale o oggetto scartato.

E’ con questi materiali che si confronta, fin dalla gioventù, Nari Ward, a cui Pirelli Hangar Bicocca dedica una esaustiva mostra (aperta fino al prossimo 28 luglio). Basti pensare a qualche sua opera degli anni Novanta, come per esempio “Iron Heavens” dove una decina di mazze da baseball giacciono carbonizzate a terra; o magari a un’opera come “Amazing Grace”, del 1993, costituita da un gigantesco cumulo di manichette antincendio e centinaia di passeggini abbandonati e assemblati tra loro. Questi oggetti non sono “neutri” (nessun oggetto lo è in fondo), bensì sono testimoni di una marginalità eletta a simbolo di una esclusione e che riguarda le centinaia e migliaia di emarginati delle metropoli americane e dell’ambiente urbano di cui fanno parte. Ward porta con sé, naturalmente, moltissime influenze e suggestioni della sua terra d’origine, come del resto fa e non può fare a meno di fare, ogni migrante. Alimenti della cucina tradizionale o elementi naturali del paesaggio caraibico, sono coniugati al tempo presente e spietatamente inseriti nel contesto “iper-urbano” newyorkese.

Grazie agli enormi spazi dell’Hangar i video, le sculture, le installazioni, riescono a realizzare quella fruizione sincronica che l’opera di Nari Ward richiede, come le quattro gigantesche installazioni del progetto “Geography Trilogy”. Le installazioni altro non sono che lo scenario di una performance, nel quale Nari Ward ha coinvolto Justin Randolph Thompson ed altri musicisti che vanno ad esibirsi su di un colossale pavimento sonoro, “Ground Break“ appunto, composto da 4000 mattoni rivestiti da una lastra di rame con stencil di argomento cosmologico. Questo grande palco-pavimento è corredato da una serie di sculture performative denominate “Parallel Objects” con interventi di danza contemporanea come “Platform 2012” realizzata dal coreografo Ralph Lemon.

Ma ad accogliere e a lasciare esterrefatto il visitatore è un’altra opera, ovvero “Hunger Cradle”(1996-2024), un incredibile tunnel composto da una fittissima rete di corde e fili che imprigiona al suo interno una serie di “object trouvé” epurati dalla loro carica simbolica-evocativa e restituiti alla poesia della quotidianità urbana. La struttura dell’opera che inizia la sua vita nel 1996 e continua ancor oggi a modificarsi, conserva le tracce del passare del tempo insieme al nucleo degli oggetti che con gli anni è molto aumentato di numero. Gli oggetti sono cullati nella rete, come protetti nella loro indecifrabile poesia, e il titolo allude proprio a questo concetto (“Cradle” significa culla). L’opera si adatta di volta in volta al luogo destinato ad accoglierla e, mutando di forma e di ingombro, muta anche nel titolo. Un’idea molto originale, anche se non nuovissima nell’arte contemporanea (ma ormai di “nuovissimo”, per la gioia del mio amico Luca Rossi, è rimasto davvero pochino). “Wishing Arena”, del 2013, é composta da alcune scale a pioli dove sono adagiati 98 cestini, entro i quali un lumino elettrico evoca la nostra intimità.

Indubbiamente, si tratta di opere cervellotiche che spesso necessitano di un commento informativo, ma che allo stesso tempo vivono perfettamente della loro autonomia di “misterica urbana”, se così si può dire. E’ anche il caso di “Tumblehood”, una grande sfera fatta di lacci e punte di scarpe, denominata così per affinità coi cespugli sferici tipici del deserto dell’Arizona che rotolando raccolgono entro di sé altri materiali, in quel caso naturali e in questo caso artificiali, ma legati al mondo del consumo e in particolare gli “oggetti residuali” delle periferie urbane. Sempre a proposito di materiali di scarto, molto di impatto è “Carpet Angel”, ali spiegate su un cumulo di moquette e tappeti usurati e consunti, prima opera di Ward esposta in un museo (Il New Museum della Bowery).

Tra le tante installazioni vale la pena citare “Happy Smilers: Duty Free Shopping” del 1996, una sorta di locale immaginario dove l’unica bevanda in vendita è appunto la “Tropical Fantasy”. Se Andy Warhol, non tanto provocatoriamente, ebbe a dire che “Mc Donald’s” era la più bella cosa da vedere a Firenze, con ben più greve coscienza anticonsumistica, Nari Ward mette alla berlina una certa idea delle identità culturali, banalizzate da un consumismo che tutto plastifica ed omogeneizza. Le pareti del locale immaginario sono tappezzate da un ammasso di arredi domestici legati tra loro dalle immancabili manichette antincendio. Al centro (siamo ormai nel “Cubo” dell’Hangar), una grande scala antincendio tipica dei “Tenements” newyorkesi, che fa molto “West Side Story”, ma allude anche ad un senso di via di fuga delle anime verso orizzonti superiori, il tutto assemblato in una mistica del “pastiches” urbano e sottoproletario. Molto intensa anche la sezione video della mostra.

Da citare su tutti “Father and Sons” del 2010 che affronta la scottante e attuale tematica del difficile rapporto tra polizia e comunità Black, attraverso le immagini di un agente afroamericano e dei suoi due figli. Una mostra complessa, variegata, di forte impatto sullo spettatore che solleva dubbi e non fornisce risposte; come deve o dovrebbe fare sempre l’arte.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Nari Ward, un geniale rigattiere

In fondo chi è Nari Ward se non un geniale rigattiere? Vecchie sedie, carrelli del supermercato, lacci, stracci, passeggini, insegne…che poi non è sicuramente molto importante cosa raccatti in giro per le strade, ma come assembli questi “oggetti” e, soprattutto, perché lo faccia. Sembra proprio che le sue opere d’arte siano tali, loro malgrado, e senza nessuna ombra di presunzione, per così dire. Nato a St. Andrew in Giamaica e catapultato a “BigMango” (Harlem), nel cuore della Grande Mela, Nari spera di diventare un disegnatore, ma in realtà si scopre collezionista e riciclatore di rifiuti solidi urbani. C’è sempre qualcosa di irresistibile negli oggetti abbandonati e nella spazzatura e l’arte contemporanea ne ha fatto una propria miniera inesauribile di novità, sia detto senza ironia alcuna. Il “rifiuto”, in una società iperconsumistica, è diventato oltremodo importante per gli artisti, proprio in quanto scoria materiale o oggetto scartato.

E’ con questi materiali che si confronta, fin dalla gioventù, Nari Ward, a cui Pirelli Hangar Bicocca dedica una esaustiva mostra (aperta fino al prossimo 28 luglio). Basti pensare a qualche sua opera degli anni Novanta, come per esempio “Iron Heavens” dove una decina di mazze da baseball giacciono carbonizzate a terra; o magari a un’opera come “Amazing Grace”, del 1993, costituita da un gigantesco cumulo di manichette antincendio e centinaia di passeggini abbandonati e assemblati tra loro. Questi oggetti non sono “neutri” (nessun oggetto lo è in fondo), bensì sono testimoni di una marginalità eletta a simbolo di una esclusione e che riguarda le centinaia e migliaia di emarginati delle metropoli americane e dell’ambiente urbano di cui fanno parte. Ward porta con sé, naturalmente, moltissime influenze e suggestioni della sua terra d’origine, come del resto fa e non può fare a meno di fare, ogni migrante. Alimenti della cucina tradizionale o elementi naturali del paesaggio caraibico, sono coniugati al tempo presente e spietatamente inseriti nel contesto “iper-urbano” newyorkese.

Grazie agli enormi spazi dell’Hangar i video, le sculture, le installazioni, riescono a realizzare quella fruizione sincronica che l’opera di Nari Ward richiede, come le quattro gigantesche installazioni del progetto “Geography Trilogy”. Le installazioni altro non sono che lo scenario di una performance, nel quale Nari Ward ha coinvolto Justin Randolph Thompson ed altri musicisti che vanno ad esibirsi su di un colossale pavimento sonoro, “Ground Break“ appunto, composto da 4000 mattoni rivestiti da una lastra di rame con stencil di argomento cosmologico. Questo grande palco-pavimento è corredato da una serie di sculture performative denominate “Parallel Objects” con interventi di danza contemporanea come “Platform 2012” realizzata dal coreografo Ralph Lemon.

Ma ad accogliere e a lasciare esterrefatto il visitatore è un’altra opera, ovvero “Hunger Cradle”(1996-2024), un incredibile tunnel composto da una fittissima rete di corde e fili che imprigiona al suo interno una serie di “object trouvé” epurati dalla loro carica simbolica-evocativa e restituiti alla poesia della quotidianità urbana. La struttura dell’opera che inizia la sua vita nel 1996 e continua ancor oggi a modificarsi, conserva le tracce del passare del tempo insieme al nucleo degli oggetti che con gli anni è molto aumentato di numero. Gli oggetti sono cullati nella rete, come protetti nella loro indecifrabile poesia, e il titolo allude proprio a questo concetto (“Cradle” significa culla). L’opera si adatta di volta in volta al luogo destinato ad accoglierla e, mutando di forma e di ingombro, muta anche nel titolo. Un’idea molto originale, anche se non nuovissima nell’arte contemporanea (ma ormai di “nuovissimo”, per la gioia del mio amico Luca Rossi, è rimasto davvero pochino). “Wishing Arena”, del 2013, é composta da alcune scale a pioli dove sono adagiati 98 cestini, entro i quali un lumino elettrico evoca la nostra intimità.

Indubbiamente, si tratta di opere cervellotiche che spesso necessitano di un commento informativo, ma che allo stesso tempo vivono perfettamente della loro autonomia di “misterica urbana”, se così si può dire. E’ anche il caso di “Tumblehood”, una grande sfera fatta di lacci e punte di scarpe, denominata così per affinità coi cespugli sferici tipici del deserto dell’Arizona che rotolando raccolgono entro di sé altri materiali, in quel caso naturali e in questo caso artificiali, ma legati al mondo del consumo e in particolare gli “oggetti residuali” delle periferie urbane. Sempre a proposito di materiali di scarto, molto di impatto è “Carpet Angel”, ali spiegate su un cumulo di moquette e tappeti usurati e consunti, prima opera di Ward esposta in un museo (Il New Museum della Bowery).

Tra le tante installazioni vale la pena citare “Happy Smilers: Duty Free Shopping” del 1996, una sorta di locale immaginario dove l’unica bevanda in vendita è appunto la “Tropical Fantasy”. Se Andy Warhol, non tanto provocatoriamente, ebbe a dire che “Mc Donald’s” era la più bella cosa da vedere a Firenze, con ben più greve coscienza anticonsumistica, Nari Ward mette alla berlina una certa idea delle identità culturali, banalizzate da un consumismo che tutto plastifica ed omogeneizza. Le pareti del locale immaginario sono tappezzate da un ammasso di arredi domestici legati tra loro dalle immancabili manichette antincendio. Al centro (siamo ormai nel “Cubo” dell’Hangar), una grande scala antincendio tipica dei “Tenements” newyorkesi, che fa molto “West Side Story”, ma allude anche ad un senso di via di fuga delle anime verso orizzonti superiori, il tutto assemblato in una mistica del “pastiches” urbano e sottoproletario. Molto intensa anche la sezione video della mostra.

Da citare su tutti “Father and Sons” del 2010 che affronta la scottante e attuale tematica del difficile rapporto tra polizia e comunità Black, attraverso le immagini di un agente afroamericano e dei suoi due figli. Una mostra complessa, variegata, di forte impatto sullo spettatore che solleva dubbi e non fornisce risposte; come deve o dovrebbe fare sempre l’arte.

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