Ci sono film che, pur partendo da un’idea più che buona, non riescono poi a sviluppare questa intuizione iniziale e, poiché la riuscita di un film è in gran parte legata non già ad un assunto interessante, ma bensì alla capacità del regista di raccontare per immagini in maniera avvincente e convincente il dipanarsi del “plot narrativo”, può accadere che a fine proiezione si resti parzialmente insoddisfatti. È il caso di “Past Lives” di Celine Song.
La storia si sviluppa intorno a Na-young e Hang-seo, fidanzatini al tempo delle scuole medie, nella sterminata Seoul in Corea del Sud, il cui delicato e fanciullesco rapporto d’amore viene bruscamente interrotto a causa del trasferimento della famiglia della ragazzina a Toronto, dove la madre scrittrice riceve una proposta di lavoro. I due giovani si rivedranno a New York dodici anni dopo, dove la ragazza si è trasferita per motivi di studio e dove viene ritrovata grazie alla potenza dei social, da Hang-seo.
E qui cominciano i primi guai per la regista Celine Song, poiché lo “schiacciamento temporale” operato dalla narrazione filmica, non consente allo spettatore di vivere efficacemente questo spazio temporale. Passano altri dodici anni e i due ex fidanzatini hanno entrambi avuto vicende sentimentali (Na-young si è sposata e Hang-seo ha avuto una relazione in Corea), ma l’uomo, assillato dal desiderio di rivederla, torna a New York dove Na-young vive col marito il quale accetta, di buon grado, l’imbarazzante ospite. Se il primo intervallo è filmicamente inesistente, il secondo è anche peggio: ventiquattro anni sono raccontati in poco più di mezz’ora di pellicola, ma non si tratta nemmeno di lunghezza cronologica, si tratta invece della immaturità della regista incapace di dare quel senso di profondità temporale che avrebbe dovuto essere uno dei meccanismi narrativi del film.
Se a questo aggiungiamo che i dialoghi sono proprio “miserelli” (anche se probabilmente in linea con i costumi e le regole narrative di quel paese e di quella cultura), nel film resta “solo” l’immagine, anche qui senza infamia né lode. Per trovare una riflessione suggestiva bisogna attaccarsi alla teoria del “In-yun” ovvero un termine che in coreano significa “destino” dal quale è difficile sfuggire. Per la prima emozione vera bisogna aspettare lo straziante, ma poetico addio dei due ex fidanzatini nella scena finale del film, quando Na-young rassicura Hang-seo, che anche se lei non è più la ragazzina di cui l’uomo si era innamorato alla scuola media, è pur vero che quella ragazzina è realmente esistita, così come è esistito quel sentimento forte e in un certo senso indistruttibile.
Un po’ poco per i 106 minuti di proiezione… Unica attenuante il fatto che Celine Song, drammaturga e sceneggiatrice è alla sua prima regia, forse dovrebbe riflettere su quale strada intraprendere…