Non so bene se sia Pierre Huyghe ad essere particolarmente adatto a Punta della Dogana, oppure se sia Punta della Dogana ad essere la sede ideale per una mostra come “Liminal”. Propenderei per la seconda ipotesi, anche perché avendo già visto le installazioni di Huyghe in altri contesti, a cominciare dalla Collection Pinault nella vecchia Borsa di Parigi, mai mi avevano fatto lo stesso sorprendente effetto che mi fanno qui. Forse questa punta architettonica-morfologica, proiettata nella laguna con i suoi ambienti austeri e misteriosi, ridisegnata anch’essa nel suo interno dallo stesso Tadao Ando (come la Bourse de Commerce), sembra particolarmente adatta ad intensificare il mistero e a renderne ancora più impenetrabili i contenuti.
Quali sono le soglie a cui fa riferimento l’artista? Certamente quelle tra umano e non umano, ma anche quelle tra organico ed inorganico, tanto per cominciare. L’esposizione, inizia facendo immergere il visitatore in un buio profondo che tuttavia gli permette di scoprire le opere con grande meraviglia e altrettanto timor panico. Ci imbattiamo subito, e quasi inconsapevolmente, in “Estelarium” (2024), calco della forma di un ventre umano gravido poco prima del parto, dove tutto ha inizio, realizzato però con un materiale che sembra conservare in sé tracce di morte e distruzione naturale: si tratta infatti di roccia lavica formatasi dal magma esposto all’aria. Nemmeno il tempo di comprendere bene che cosa abbiamo davanti, ed ecco questa volta a rapirci, “Portal”, gigantesco totem in ottone munito di telecamera e microfono che produce suoni, luci e proiezioni in tempo, direi, ir-reale. Granchi freccia, granchio eremita, conchiglia di resina da “La Musa dormiente” di Costantin Brancusi, popolano il secondo “mondo” in cui ci si inabissa. Si tratta di “Zoodram” del 2013, un vero e proprio acquario, direi un “acquario preparato”, ma comunque un ambiente che sta a cavallo tra il naturale e l’artificiale, popolato da una dose di aleatorietà su quello che può succedere al suo interno.
Esseri non-umani come i piccoli granchi, si trovano ad interagire con una forma umana-non umana come la scultura di una testa, un simulacro dell’umano rappresentato dalla copia della scultura di Brancusi del 1910. Ma altri acquari misteriosi popolano la sala, sempre immersa in un buio quasi ossessivo, si tratta di “Abyssal Plane” del 2015, dove un modello in cemento (anzi mezza figura), giace su un immaginario fondale marino con stelle marine, pietre e conchiglie del Mar di Marmara.
Cosa ci racconta questo fondale? C’è certamente di più del brivido che potrebbe scaturire dal messaggio dell’inorganico che, come aveva intuito e teorizzato già Mario Perniola nel suo fondamentale “Sex-appeal dell’inorganico”, lancia sempre inconsapevoli messaggi estetici. C’è qualcosa di “altro” che potremmo definire come un senso profondo di scoramento e rassegnazione per la ciclicità del movimento vita-morte, ma anche della dialettica storia-eternità. Cose ed esseri “sul limine” tra essere e non più essere. Ancora un acquario abitato da diverse specie di pesci tetra, detti anche pesci ciechi delle caverne, in “Circadian Dilemma” del 2017, titolo che allude al ritmo circadiano, alterato geneticamente, presente in questi pesci che non conoscono la luce. Il vetro dell’acquario reagisce di modo da poter riflettere la luce, facendo così mutare la capacità esente in questi pesci di vedere. Quasi un esperimento scientifico applicato ad un’opera che chiamare ancora “artistica” è una apparente forzatura.
È solo apparente poiché nei secoli XV, XVI e anche XVII scienza ed arte non erano scisse in maniera definitiva come sembrano esserlo oggi. A proposito di scienza (e di arte) nella Sala 2 dell’esposizione ecco “Human Mask” un film del 2014 (reperibile anche sul web), ambientato nei pressi di Fukushima nello spettrale paesaggio creatosi a seguito del noto disastro nucleare.
Qui, in un ristorante vuoto, una scimmia con una maschera da bambina, ripete all’infinito i gesti per i quali era stata addestrata, una terrificante immagine residuale della presenza umana. “Camata” (2024) è invece uno spettacolare e sconvolgente film auto generato dall’intelligenza artificiale dove alcune macchine sembrano ripetere un funereo rituale sconosciuto. Il film, grazie all’AI, si automodifica all’infinito, lasciando intatta solo l’ambientazione “lunare” del deserto di Atacama in Cile (che è diventato un set molto ambito, a cominciare dal film di Thomas Saraceno).
Sui sistemi autogenerativi, Pierre Huyghe ha lavorato molto e con risultati eccellenti; si veda per esempio “Offspring”, un pannello appeso al soffitto che genera, nel buio più assoluto, luci vaporizzate che mutano lentissimamente, ma in continuazione. Le enigmatiche meraviglie di questa mostra non finiscono qui, con “De-extinction”, film del 2014, delle telecamere microscopiche indagano l’interno di una pietra d’ambra, dove due insetti si stavano riproducendo un milione di anni fa. Un po’ macabro, ma assolutamente in linea con il resto, è certamente “Cancer Variator” (2016), immagini di cellule tumorali “in vitro” che accelerano o rallentano la loro divisione, producendo a loro volta immagini che si riproducono all’infinito: c’è qui un riferimento ai “meme” dei social che appestano il web. Ma l’opera certamente più spettacolare è “Idiom, 2024”: sei modelli e modelle in (chiamiamole così) in calzamaglia nera, indossano nel buio quasi totale, una maschera munita di sensori che rilevano una serie di impulsi cerebrali che si trasformano in fonemi e sintassi, grazie all’apparato vocale umano e che vanno a creare di una lingua ineffabile che proviene da una una realtà “altra” rispetto al nostro corpo. Questa mostra è certamente quanto di più interessante abbia visto quest’anno e Pierre Huyghe, pupillo di François Pinault che possiede numerosissime sue opere nella sontuosa collezione parigina, è uno degli artisti-scienziati più interessante degli ultimi anni.
La mostra di Punta della Dogana, è aperta fino al prossimo 23 novembre e vi assicuro che vale, anche da sola, una “scappata” a Venezia.