Saodat Ismailova, l’artista dell’Uzbekistan che espone a Milano

Saodat Ismailova è un’artista cresciuta nell’Uzbekistan post-sovietico e molto legata alla sua terra, tanto da trarre da lì tutta la materia per le sue creazioni artistiche. Da qualche anno a questa parte, la politica culturale del gigantesco contenitore artistico milanese, il Pirelli Hangar Bicocca, è proprio quella di prestare attenzione ad artisti ed opere che privilegino temi legati alle conoscenze ancestrali, ai saperi spirituali, alle radici dei popoli, così come al rapporto tra popolazioni e territori abitati. La Ismailova, dopo il corso di studi presso la “Tashkent State Art Institute”, incomincia a frequentare gruppi di cinefili dell’underground e si interessa molto a registi quali Antonioni, Tarkovskij, Bergman. Studia anche in Italia, dove viene anche premiata nel 2004 al Torino Film Festival.

Conservare la memoria del paesaggio e degli abitanti delle terre natie, diventa per l’Ismailova quasi una missione, più che un ricercato obiettivo artistico. Seguendo una antica tradizione orale uzbeka, Saodat si prefigge di creare un archivio di sogni che, dal popolo uzbeko, vengono tradizionalmente affidati all’acqua che scorre. Non si tratta tuttavia di un archivio immaginario, ma del tutto tangibile, fatto di immagini, riprese, registrazioni che avrà il suo culmine nella realizzazione di “Stains of Oxus”, video a tre canali che racconta i sogni degli abitanti dei villaggi lungo il corso del fiume Amu Darya, dove la deviazione delle acque, in epoca sovietica, causò un progressivo inaridimento delle terre.

Il film segue il corso del fiume, dalla sorgente sulle alture del Pamir, fino alle rive inaridite del deserto di Aral. Sulla scorta dello studio dei testi di Henry Corbin, l’artista, facendo esplicito riferimento alla cosmologia, nel 2003 gira “Zukhra”, ovvero “Venere”, immagini quasi statiche di una donna e della sua capigliatura accompagnate da una colonna sonora fatte di tracce provenienti dall’archivo della Ismailova, mixate col suono dei cavi elettrici presenti in “Stalker” di Andrej Tarkovskij e il respiro di un cavallo tratto da un film di animazione; insomma materiali molto eterogenei abilmente miscelati.

Saodat Ismailova utilizza molte tecniche artigianali della sua terra, quali per esempio, la tessitura e il ricamo, come in “The Hauted” (2024), una evocazione su stoffa della tigre di Tuan; idealmente poi, i racconti legati a queste tigri in via di estinzione proseguono nel video che porta lo stesso titolo. “18.000 Worlds” è invece un film che allude alla leggenda, molto diffusa in Asia, secondo la quale il nostro è solo uno dei 18.000 mondi presenti nell’universo: il film è costruito con estratti di riprese e materiali di scarto, effettuati e raccolti dall’artista.

A proposito di mondi, “Two Horizon”, è un film ambientato nel cosmodromo di Bajkonur, la base russa da dove partì la prima avventura spaziale guidata da Yuri Gagarin. Due storie si intrecciano, quella di un bambino che evoca il mito di Qorqut, il primo sciamano dell’Asia che sarebbe stato l’unico uomo in grado di levitare, la seconda tutta incentrata sul luogo, ombelico del mondo, proprio grazie ai fasti dell’epoca sovietica.

La scultura di piccole o piccolissime dimensioni è una parte importante nella produzione dell’artista. In “The Seed Under Our Tongue” che dà il titolo alla mostra, la micro scultura in oro (praticamente un gioiello),  rappresenta il seme di un dattero: la responsabilità individuale (come il gesto di seminare) a fronte dei destini di una collettività. Il titolo fa riferimento ad una leggenda locale dove un saggio, Akhmad Yasawi semina un seme di dattero che aveva conservato sette anni sotto la lingua, seme che darà origine alla gigantesca foresta ai piedi del monte Sulaiman-Too. Ancora una foresta quella di Arslanbob è presente nell’omonimo video, una foresta caratterizzata dalla presenza di numerosi piante medicinali, un habitat unico, anche questo a rischio di sparizione.

“A Guide an Ancestor, a Tiger, a Healer” del 2024 è un’opera scultorea racchiusa in una teca di vetro che raccoglie alcune falangi di arti umani e animali (di tigre per la precisione), in materiale vitreo e completamente fuori scala. I reperti rimandano direttamente ad uno dei sogni raccontati dall’artista in “Stains of Oxus”. Questa pratica di rappresentare piccoli oggetti nelle opere filmiche, come fossero reperti fossili del film, è piuttosto originale, anche se già vista.

La mostra dello Shed è tutt’altro che una mostra semplice per chi voglia approfondire le tematiche trattate, ma anche molto godibile per le anime pure. E questo concetto non si può ahimé “spiegare”…

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Mario Grella

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Saodat Ismailova, l’artista dell’Uzbekistan che espone a Milano

Saodat Ismailova è un’artista cresciuta nell’Uzbekistan post-sovietico e molto legata alla sua terra, tanto da trarre da lì tutta la materia per le sue creazioni artistiche. Da qualche anno a questa parte, la politica culturale del gigantesco contenitore artistico milanese, il Pirelli Hangar Bicocca, è proprio quella di prestare attenzione ad artisti ed opere che privilegino temi legati alle conoscenze ancestrali, ai saperi spirituali, alle radici dei popoli, così come al rapporto tra popolazioni e territori abitati. La Ismailova, dopo il corso di studi presso la “Tashkent State Art Institute”, incomincia a frequentare gruppi di cinefili dell’underground e si interessa molto a registi quali Antonioni, Tarkovskij, Bergman. Studia anche in Italia, dove viene anche premiata nel 2004 al Torino Film Festival.

Conservare la memoria del paesaggio e degli abitanti delle terre natie, diventa per l’Ismailova quasi una missione, più che un ricercato obiettivo artistico. Seguendo una antica tradizione orale uzbeka, Saodat si prefigge di creare un archivio di sogni che, dal popolo uzbeko, vengono tradizionalmente affidati all’acqua che scorre. Non si tratta tuttavia di un archivio immaginario, ma del tutto tangibile, fatto di immagini, riprese, registrazioni che avrà il suo culmine nella realizzazione di “Stains of Oxus”, video a tre canali che racconta i sogni degli abitanti dei villaggi lungo il corso del fiume Amu Darya, dove la deviazione delle acque, in epoca sovietica, causò un progressivo inaridimento delle terre.

Il film segue il corso del fiume, dalla sorgente sulle alture del Pamir, fino alle rive inaridite del deserto di Aral. Sulla scorta dello studio dei testi di Henry Corbin, l’artista, facendo esplicito riferimento alla cosmologia, nel 2003 gira “Zukhra”, ovvero “Venere”, immagini quasi statiche di una donna e della sua capigliatura accompagnate da una colonna sonora fatte di tracce provenienti dall’archivo della Ismailova, mixate col suono dei cavi elettrici presenti in “Stalker” di Andrej Tarkovskij e il respiro di un cavallo tratto da un film di animazione; insomma materiali molto eterogenei abilmente miscelati.

Saodat Ismailova utilizza molte tecniche artigianali della sua terra, quali per esempio, la tessitura e il ricamo, come in “The Hauted” (2024), una evocazione su stoffa della tigre di Tuan; idealmente poi, i racconti legati a queste tigri in via di estinzione proseguono nel video che porta lo stesso titolo. “18.000 Worlds” è invece un film che allude alla leggenda, molto diffusa in Asia, secondo la quale il nostro è solo uno dei 18.000 mondi presenti nell’universo: il film è costruito con estratti di riprese e materiali di scarto, effettuati e raccolti dall’artista.

A proposito di mondi, “Two Horizon”, è un film ambientato nel cosmodromo di Bajkonur, la base russa da dove partì la prima avventura spaziale guidata da Yuri Gagarin. Due storie si intrecciano, quella di un bambino che evoca il mito di Qorqut, il primo sciamano dell’Asia che sarebbe stato l’unico uomo in grado di levitare, la seconda tutta incentrata sul luogo, ombelico del mondo, proprio grazie ai fasti dell’epoca sovietica.

La scultura di piccole o piccolissime dimensioni è una parte importante nella produzione dell’artista. In “The Seed Under Our Tongue” che dà il titolo alla mostra, la micro scultura in oro (praticamente un gioiello),  rappresenta il seme di un dattero: la responsabilità individuale (come il gesto di seminare) a fronte dei destini di una collettività. Il titolo fa riferimento ad una leggenda locale dove un saggio, Akhmad Yasawi semina un seme di dattero che aveva conservato sette anni sotto la lingua, seme che darà origine alla gigantesca foresta ai piedi del monte Sulaiman-Too. Ancora una foresta quella di Arslanbob è presente nell’omonimo video, una foresta caratterizzata dalla presenza di numerosi piante medicinali, un habitat unico, anche questo a rischio di sparizione.

“A Guide an Ancestor, a Tiger, a Healer” del 2024 è un’opera scultorea racchiusa in una teca di vetro che raccoglie alcune falangi di arti umani e animali (di tigre per la precisione), in materiale vitreo e completamente fuori scala. I reperti rimandano direttamente ad uno dei sogni raccontati dall’artista in “Stains of Oxus”. Questa pratica di rappresentare piccoli oggetti nelle opere filmiche, come fossero reperti fossili del film, è piuttosto originale, anche se già vista.

La mostra dello Shed è tutt’altro che una mostra semplice per chi voglia approfondire le tematiche trattate, ma anche molto godibile per le anime pure. E questo concetto non si può ahimé “spiegare”…

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Mario Grella

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.