Saul Steinberg Milano New York

E’ quanto mai difficile scrivere di un artista come Saul Steinberg e lo è per un motivo semplice: descrivere segni con le parole è quasi impossibile e lo è, tanto più, quando i segni dicono molto di più delle parole. Come per chi del segno grafico ha fatto una lingua articolata, penso per esempio a George Grosz, ad Alfred Kubin e a Roland Topor, anche per Steinberg le parole non solo, non sono sufficienti, ma spesso sono anche inutili o addirittura dannose. Siccome però il web e non solo il web, per fortuna, non è fatto solo di immagini, non potrò fare a meno di utilizzare questo mezzo per raccontarvi della straordinaria mostra in corso alla Triennale di Milano, aperta fino al 13 marzo 2022, intitolata “Saul Steinberg Milano New York” curata da Italo Lupi e Marco Belpoliti, in collaborazione con la casa editrice Electa che ne edita il bellissimo catalogo.

Esposti centinaia di disegni (non sempre e non solo i più noti), scritti, fotografie ed altri materiali del grande disegnatore e designer rumeno-statunitense, ma anche un po’ italiano, in considerazione della sua lunga permanenza a Milano. Com’è noto al centro della sua poetica sta la lapidaria e un po’ surreale affermazione sulla “consapevolezza della linea di essere una linea”, e di linee, nella mostra di Milano, ce ne sono tante e tutte molto “consapevoli di esserlo”. L’omino che disegna la sua propria linea di contorno e che accoglie il visitatore all’ingresso della mostra, è rappresentativo di questo concetto. Appena oltre, dopo qualche divertente ritratto fotografico di Steinberg, ecco un documento ufficiale, il certificato di identità rilasciato nel 1934 dal Comune di Milano, che permette all’artista di restare nel nostro paese, dove si iscrisse e si laureò al Regio Politecnico; ma il destino di Steinberg era quello di essere un migrante e dovette infatti lasciare poi l’Italia per le infami leggi razziali, per sbarcare come milioni di altri perseguitati, a Ellis Island.

Ed è a New York che Steinberg pubblica il primo disegno sul “New Yorker” ed è proprio attraverso il prestigioso mensile americano che Steinberg divenne famoso, tanto che quando si pensa a lui è quasi automatico pensare a “The New Yorker” e viceversa. Le sue vignette furono poi pubblicate sui più importanti “magazine” americani come “Life”, “Time”, “Harper’s Bazaar”. La mostra milanese offre una bella fetta della produzione di Steinberg, anche se comunque limitata rispetto all’enorme mole di opere lasciateci dal grande artista.

Il magnifico olio su tela del 1941 senza titolo della Bruno Coen Sacerdotti Collection, ben riassume l’idea di Steinberg sull’Italia, anzi l’idea di “una” Italia; l’Italia dell’arte, delle piazze (prima che diventassero posteggi), dei tipi umani, del mare, in fondo un’Italia del saper vivere (anche del dolce-far-niente), che lo attirava molto. Magnifico ed irriverente il suo alfabeto illustrato per Pietro Nivola del 1944, memorabile il suo disegno della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, popolata da una folla vociante e indaffarata che, per dinamicità e armonia, potrebbe stare al pari della celebrata “Rissa in Galleria” di Umberto Boccioni.

E che dire della sua assurda ed ilare “araldica”, qui ben ricordata con “E Pluribus per Diem (Saco Warrior) del 1943. Ma è forse lo sguardo incantato ed incantevole dell’artista a saperci mostrare un mondo pregno di poesia visiva; ecco allora che anche un complesso industriale diventa un paesaggio fabiesco. Lo stesso segno emozionale, partecipativo, ingenuo, ma analitico, racconta un mondo di oggetti ed arredi che possono essere usciti indistintamente dal “Giornalino di Gianburrasca” o dalla “Fallingwater House” di Frank Lloyd Wright. In realtà il suo era uno sguardo solo apparentemente ingenuo; nel suo tratto è connaturato il desiderio di una caustica analisi visiva di cose e case, di vizi e vezzi e, a proposito di vezzi, ineguagliabili per ironia, capacità di sintesi e invenzione formale, sono i suoi ritratti che chiamare caricature potrebbe essere fortemente riduttivo, sia che si tratti di signore dei salotti milanesi, di una sua maschera-autoritratto o del disegno parodistico dell’autoritratto di Van Gogh: l’invenzione è sempre meravigliosa e la novità è la regola.

Artista apprezzato da grandi nomi della cultura internazionale come Saul Bellow, Ernst Gombrich, Eugène Ionesco, Roland Barthes, Italo Calvino, fu amico fraterno di Aldo Buzzi col quale intrattenne anche un fitto e particolare carteggio (raccolto qualche anno fa in un magnifico volume pubblicato da Adelphi). Insomma una figura di intellettuale a tutto tondo che meriterebbe magari di essere ricordata con un monumento in una piazza milanese, ma non un monumento qualsiasi, magari uno che assomigli ad uno dei suoi arguti disegni, pieni di “esprit” e assolutamente privi di retorica artistica.

Del resto fu proprio lui a scrivere “L’arte precede la tecnica come l’odore precede la torta”. Non perdetevi quindi questa mostra di un milanese di New York o di un newyorkese di Milano, come avrebbe certamente amato essere chiamato Saul Steinberg.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Saul Steinberg Milano New York

E’ quanto mai difficile scrivere di un artista come Saul Steinberg e lo è per un motivo semplice: descrivere segni con le parole è quasi impossibile e lo è, tanto più, quando i segni dicono molto di più delle parole. Come per chi del segno grafico ha fatto una lingua articolata, penso per esempio a George Grosz, ad Alfred Kubin e a Roland Topor, anche per Steinberg le parole non solo, non sono sufficienti, ma spesso sono anche inutili o addirittura dannose. Siccome però il web e non solo il web, per fortuna, non è fatto solo di immagini, non potrò fare a meno di utilizzare questo mezzo per raccontarvi della straordinaria mostra in corso alla Triennale di Milano, aperta fino al 13 marzo 2022, intitolata “Saul Steinberg Milano New York” curata da Italo Lupi e Marco Belpoliti, in collaborazione con la casa editrice Electa che ne edita il bellissimo catalogo.

Esposti centinaia di disegni (non sempre e non solo i più noti), scritti, fotografie ed altri materiali del grande disegnatore e designer rumeno-statunitense, ma anche un po’ italiano, in considerazione della sua lunga permanenza a Milano. Com’è noto al centro della sua poetica sta la lapidaria e un po’ surreale affermazione sulla “consapevolezza della linea di essere una linea”, e di linee, nella mostra di Milano, ce ne sono tante e tutte molto “consapevoli di esserlo”. L’omino che disegna la sua propria linea di contorno e che accoglie il visitatore all’ingresso della mostra, è rappresentativo di questo concetto. Appena oltre, dopo qualche divertente ritratto fotografico di Steinberg, ecco un documento ufficiale, il certificato di identità rilasciato nel 1934 dal Comune di Milano, che permette all’artista di restare nel nostro paese, dove si iscrisse e si laureò al Regio Politecnico; ma il destino di Steinberg era quello di essere un migrante e dovette infatti lasciare poi l’Italia per le infami leggi razziali, per sbarcare come milioni di altri perseguitati, a Ellis Island.

Ed è a New York che Steinberg pubblica il primo disegno sul “New Yorker” ed è proprio attraverso il prestigioso mensile americano che Steinberg divenne famoso, tanto che quando si pensa a lui è quasi automatico pensare a “The New Yorker” e viceversa. Le sue vignette furono poi pubblicate sui più importanti “magazine” americani come “Life”, “Time”, “Harper’s Bazaar”. La mostra milanese offre una bella fetta della produzione di Steinberg, anche se comunque limitata rispetto all’enorme mole di opere lasciateci dal grande artista.

Il magnifico olio su tela del 1941 senza titolo della Bruno Coen Sacerdotti Collection, ben riassume l’idea di Steinberg sull’Italia, anzi l’idea di “una” Italia; l’Italia dell’arte, delle piazze (prima che diventassero posteggi), dei tipi umani, del mare, in fondo un’Italia del saper vivere (anche del dolce-far-niente), che lo attirava molto. Magnifico ed irriverente il suo alfabeto illustrato per Pietro Nivola del 1944, memorabile il suo disegno della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, popolata da una folla vociante e indaffarata che, per dinamicità e armonia, potrebbe stare al pari della celebrata “Rissa in Galleria” di Umberto Boccioni.

E che dire della sua assurda ed ilare “araldica”, qui ben ricordata con “E Pluribus per Diem (Saco Warrior) del 1943. Ma è forse lo sguardo incantato ed incantevole dell’artista a saperci mostrare un mondo pregno di poesia visiva; ecco allora che anche un complesso industriale diventa un paesaggio fabiesco. Lo stesso segno emozionale, partecipativo, ingenuo, ma analitico, racconta un mondo di oggetti ed arredi che possono essere usciti indistintamente dal “Giornalino di Gianburrasca” o dalla “Fallingwater House” di Frank Lloyd Wright. In realtà il suo era uno sguardo solo apparentemente ingenuo; nel suo tratto è connaturato il desiderio di una caustica analisi visiva di cose e case, di vizi e vezzi e, a proposito di vezzi, ineguagliabili per ironia, capacità di sintesi e invenzione formale, sono i suoi ritratti che chiamare caricature potrebbe essere fortemente riduttivo, sia che si tratti di signore dei salotti milanesi, di una sua maschera-autoritratto o del disegno parodistico dell’autoritratto di Van Gogh: l’invenzione è sempre meravigliosa e la novità è la regola.

Artista apprezzato da grandi nomi della cultura internazionale come Saul Bellow, Ernst Gombrich, Eugène Ionesco, Roland Barthes, Italo Calvino, fu amico fraterno di Aldo Buzzi col quale intrattenne anche un fitto e particolare carteggio (raccolto qualche anno fa in un magnifico volume pubblicato da Adelphi). Insomma una figura di intellettuale a tutto tondo che meriterebbe magari di essere ricordata con un monumento in una piazza milanese, ma non un monumento qualsiasi, magari uno che assomigli ad uno dei suoi arguti disegni, pieni di “esprit” e assolutamente privi di retorica artistica.

Del resto fu proprio lui a scrivere “L’arte precede la tecnica come l’odore precede la torta”. Non perdetevi quindi questa mostra di un milanese di New York o di un newyorkese di Milano, come avrebbe certamente amato essere chiamato Saul Steinberg.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.