Simon Hantaï e L’exposition du centenaire

In occasione del centenario della nascita di Simon Hantaï, la Fondation Vuitton di Parigi dedica all’artista, ungherese di nascita e francese d’adozione, una grande esposizione nella “Glass Ship” di Frank Gehry al Bois de Boulogne. Arrivato a Parigi nel 1948, Hantaï si dedica allo studio delle collezioni etnografiche al Palazzo del Trocadero. Il primo e fondamentale lavoro di Hantaï, è una grafica, ovvero una “scontornatura” di una figura umana tracciata su una fotografia e pubblicata dalla rivista etnografica francese “La Momie”.

Sarà proprio la presa di coscienza della fascinazione di quel segno grafico e il costante contatto con la spiritualità, a segnare tutta la carriera artistica di Hantaï. Dal 1960 l’artista erige la tela a suo materiale privilegiato, con il quale agire e sul quale intervenire con diversi materiali quali stoffe, carte, colore, caratteri di scrittura, oltre alla sua tecnica del “pliage”, una sorta di piegatura e arricciatura della tela. A Parigi entra in contatto con quel che resta del gruppo surrealista; dice di lui Benjamin Peret: “Con lui i materiali meno nobili, un osso, una lisca di pesce, il frammento di un giornale divengono rivelazioni ai suoi e ai nostri occhi…” Forse non si tratta di una tematica nuovissima, ma le grandi dimensioni delle tele e la capacità dell’artista di replicare serialmente i soggetti, fanno di Simon Hantaï un artista oltremodo originale. I materiali vengono stropicciati, strappati, decolarati, incollati su immense tele bianche, ma non si tratta di un mero “divertissement”, scrive infatti a questo proposito Hantaï: “C’est le RIEN où commencent les choses…”.

Il vuoto, lo spazio bianco, come luogo della creazione (e anche questa non è una suggestione nuovissima). Nel 1958 le sue, opere sono esposte alla Galeire Kléber, gigantesche tele che ebbero uno straordinario successo e proprio dall’autunno di quell’anno fino all’autunno del 1959, Hantaï condurrà una vera e propria esperienza di meditazione pittorica: dopo aver ricopiato, alla mattina, sulla tela testi biblici o filosofici, nel pomeriggio li ricopre con tenui colori come il rosa, cancellando così il testo che resta solo fissato solo nella memoria dell’artista. Attratto fortemente dal rapporto spiritualità-pittura, e influenzato dall’arte bizantina, realizza “Monogold”, grande tela in foglia d’oro che evoca e indugia sulla presenza-assenza di Dio. Anche nella serie “Mariales”, omaggio alle “madonne in maestà” del Rinascimento italiano, il sacro è costantemente presente nella sua opera.

Si tratta di tele uniformemente ricoperte di colore, con alcune pigmentazioni a rilievo, un processo pittorico che si raffina col procedere nella produzione delle tele. Le opere furono ispirate dalla visita di Hantaï agli Uffizi, dove rimase soggiogato spiritualmente dalla Madonna di Ognissanti di Giotto. L’intera produzione di Hantaï è sviluppata proprio su questo doppio binario: da una parte la suggestione spirituale e dall’altra la soddisfazione di questo desiderio dello spirito, da parte della materia pittorica e del suo supporto, la tela. È altresì evidente che la singola tela non può restituire il senso della sua pittura, ma le grandi mostre come questa, dove sono esposte intere serie di opere, l’evoluzione del lavoro e la sua raffinatura e raffinatezza finale, appaiono del tutto evidenti.

Dal 1966 Hantaï si stabilisce ai confini della Foresta di Fontainbleu, dove produce una infinita serie di monocromi e con l’inizio degli anni Settanta, realizza una serie di “pliages” sempre monocromi, di colore bianco, quasi a voler tornare alla tela vergine, dove inizio e fine sembrano incontrarsi. I bianchi di Hantaï sono un’invocazione dell’infinito, solo il bianco infatti, in quanto colore acromatico e sintesi additiva di tutti i colori dello spettro visibile, sembra soddisfarlo pienamente. Segue poi la serie “Tabulas”, con un’attenzione tutta rivolta alla tela, alla sua campitura e suddivisione e numerose raccolte grafiche. La grande mostra parigina suggerisce anche un confronto-dialogo tra la pittura di Simon Hantaï con quella di Daniel Buren, col quale lavorò negli anni Sessanta e con Michel Parmentier, suo amico e compagno di studi.

La mostra della Fondation Vuitton appare subito come coraggiosa e indirizzata ad un pubblico con più d’una conoscenza in campo artistico, un omaggio al lavoro di un pittore e manipolatore della tela che nella prima metà del XX secolo può essere paragonato forse solo al lavoro di Antoni Tàpies e per altri versi a quello di Lucio Fontana e Alberto Burri.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Simon Hantaï e L’exposition du centenaire

In occasione del centenario della nascita di Simon Hantaï, la Fondation Vuitton di Parigi dedica all’artista, ungherese di nascita e francese d’adozione, una grande esposizione nella “Glass Ship” di Frank Gehry al Bois de Boulogne. Arrivato a Parigi nel 1948, Hantaï si dedica allo studio delle collezioni etnografiche al Palazzo del Trocadero. Il primo e fondamentale lavoro di Hantaï, è una grafica, ovvero una “scontornatura” di una figura umana tracciata su una fotografia e pubblicata dalla rivista etnografica francese “La Momie”.

Sarà proprio la presa di coscienza della fascinazione di quel segno grafico e il costante contatto con la spiritualità, a segnare tutta la carriera artistica di Hantaï. Dal 1960 l’artista erige la tela a suo materiale privilegiato, con il quale agire e sul quale intervenire con diversi materiali quali stoffe, carte, colore, caratteri di scrittura, oltre alla sua tecnica del “pliage”, una sorta di piegatura e arricciatura della tela. A Parigi entra in contatto con quel che resta del gruppo surrealista; dice di lui Benjamin Peret: “Con lui i materiali meno nobili, un osso, una lisca di pesce, il frammento di un giornale divengono rivelazioni ai suoi e ai nostri occhi…” Forse non si tratta di una tematica nuovissima, ma le grandi dimensioni delle tele e la capacità dell’artista di replicare serialmente i soggetti, fanno di Simon Hantaï un artista oltremodo originale. I materiali vengono stropicciati, strappati, decolarati, incollati su immense tele bianche, ma non si tratta di un mero “divertissement”, scrive infatti a questo proposito Hantaï: “C’est le RIEN où commencent les choses…”.

Il vuoto, lo spazio bianco, come luogo della creazione (e anche questa non è una suggestione nuovissima). Nel 1958 le sue, opere sono esposte alla Galeire Kléber, gigantesche tele che ebbero uno straordinario successo e proprio dall’autunno di quell’anno fino all’autunno del 1959, Hantaï condurrà una vera e propria esperienza di meditazione pittorica: dopo aver ricopiato, alla mattina, sulla tela testi biblici o filosofici, nel pomeriggio li ricopre con tenui colori come il rosa, cancellando così il testo che resta solo fissato solo nella memoria dell’artista. Attratto fortemente dal rapporto spiritualità-pittura, e influenzato dall’arte bizantina, realizza “Monogold”, grande tela in foglia d’oro che evoca e indugia sulla presenza-assenza di Dio. Anche nella serie “Mariales”, omaggio alle “madonne in maestà” del Rinascimento italiano, il sacro è costantemente presente nella sua opera.

Si tratta di tele uniformemente ricoperte di colore, con alcune pigmentazioni a rilievo, un processo pittorico che si raffina col procedere nella produzione delle tele. Le opere furono ispirate dalla visita di Hantaï agli Uffizi, dove rimase soggiogato spiritualmente dalla Madonna di Ognissanti di Giotto. L’intera produzione di Hantaï è sviluppata proprio su questo doppio binario: da una parte la suggestione spirituale e dall’altra la soddisfazione di questo desiderio dello spirito, da parte della materia pittorica e del suo supporto, la tela. È altresì evidente che la singola tela non può restituire il senso della sua pittura, ma le grandi mostre come questa, dove sono esposte intere serie di opere, l’evoluzione del lavoro e la sua raffinatura e raffinatezza finale, appaiono del tutto evidenti.

Dal 1966 Hantaï si stabilisce ai confini della Foresta di Fontainbleu, dove produce una infinita serie di monocromi e con l’inizio degli anni Settanta, realizza una serie di “pliages” sempre monocromi, di colore bianco, quasi a voler tornare alla tela vergine, dove inizio e fine sembrano incontrarsi. I bianchi di Hantaï sono un’invocazione dell’infinito, solo il bianco infatti, in quanto colore acromatico e sintesi additiva di tutti i colori dello spettro visibile, sembra soddisfarlo pienamente. Segue poi la serie “Tabulas”, con un’attenzione tutta rivolta alla tela, alla sua campitura e suddivisione e numerose raccolte grafiche. La grande mostra parigina suggerisce anche un confronto-dialogo tra la pittura di Simon Hantaï con quella di Daniel Buren, col quale lavorò negli anni Sessanta e con Michel Parmentier, suo amico e compagno di studi.

La mostra della Fondation Vuitton appare subito come coraggiosa e indirizzata ad un pubblico con più d’una conoscenza in campo artistico, un omaggio al lavoro di un pittore e manipolatore della tela che nella prima metà del XX secolo può essere paragonato forse solo al lavoro di Antoni Tàpies e per altri versi a quello di Lucio Fontana e Alberto Burri.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.