Steve Harries, “Octopus”

Non so se Steve Harries sia un grande osservatore della natura oppure se le sue fotografie abbiano solo incidentalmente come soggetto la natura. Potrebbe sembrare una osservazione paradossale, è certamente lo è per un fotografo che ha eletto la natura a suo soggetto privilegiato. Eppure a me Steve Harries non sembra un fotografo completamente sincero, credo infatti che non sia la natura il vero oggetto del suo amore. Non c’è nulla di male o di scorretto, ma mi sembra che ad Harries interessi principalmente la composizione materica. Visitando la piccola e deliziosa mostra della Fondazione Sozzani, intitolata “Octopus” e allestita in collaborazione con la Webber Gallery di Londra (aperta fino al 29 maggio), ne ho avuto la conferma.

Se si guarda la favolosa stampa cromogenica su alluminio, intitolata “Geological Study” e se, la si guarda bene, non si può che convenire sul fatto che i due monoliti sembrino essere presenze materiche, la cui origine naturale appare solo una casualità. Quello che conta molto di più è il loro algido isolamento da un contesto naturale, l’illuminazione o la profondità di campo. Ma il discorso non cambia di molto se ci dedica all’osservazione di “Landscape IV”, dove il candore di un ghiacciaio attraversato dalle lesioni di alcuni crepacci, è affiancato, in una stampa al bromuro su metallo, al verticalismo di una roccia scura e dal profilo netto.

Che importa in fondo che si tratti di una, anzi di due, montagne? Quello che vuol trasmettere Harries non è un’estasi emozionale, data dal cospetto con la natura così com’è, ma un’emozione molto più intenzionale e maliziosa, questa è l’emozione estetica, che può anche avere a che fare con la natura, ma è molto più legata alla mente che non al corpo. La disamina potrebbe proseguire per tutte le 11 opere esposte, ma le conclusioni sarebbero le stesse. Ma bisogna però dire che qualsiasi sia l’intenzione dell’approccio alla natura di Steve Harries, il risultato è comunque artisticamente di grandissimo pregio. Poco importa in fondo se a darci quelle vibrazioni sia una roccia o un palo della luce, l’emozione è vera ed intensa. Del resto Harries è una vecchia volpe nel manipolare l’immagine (detto in senso buono, naturalmente) ha infatti lavorato con grandi brand della moda, come Alexander McQueen, Cartier, Louis Vuitton, Nike, Calvin Klein, Bottega Veneta ed altri ancora. Ha inoltre collaborato con riviste del calibro di “The New Yorker” e “Vogue”. Peccato non avere nelle proprie disponibilità immediate quei 10-12.000 euro per portarsi a casa un paio di fotografie in vendita presso la galleria.

Però con una trentina di euro mi sono portato a casa il magnifico ed originalissimo volume “Studio Botanical” del 2017, suo secondo volume dopo “Vivienne Westwood, Café Society, 1994” del 2016.

Mai passare in Corso Como Dieci senza cedere a qualche tentazione…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Steve Harries, “Octopus”

Non so se Steve Harries sia un grande osservatore della natura oppure se le sue fotografie abbiano solo incidentalmente come soggetto la natura. Potrebbe sembrare una osservazione paradossale, è certamente lo è per un fotografo che ha eletto la natura a suo soggetto privilegiato. Eppure a me Steve Harries non sembra un fotografo completamente sincero, credo infatti che non sia la natura il vero oggetto del suo amore. Non c’è nulla di male o di scorretto, ma mi sembra che ad Harries interessi principalmente la composizione materica. Visitando la piccola e deliziosa mostra della Fondazione Sozzani, intitolata “Octopus” e allestita in collaborazione con la Webber Gallery di Londra (aperta fino al 29 maggio), ne ho avuto la conferma.

Se si guarda la favolosa stampa cromogenica su alluminio, intitolata “Geological Study” e se, la si guarda bene, non si può che convenire sul fatto che i due monoliti sembrino essere presenze materiche, la cui origine naturale appare solo una casualità. Quello che conta molto di più è il loro algido isolamento da un contesto naturale, l’illuminazione o la profondità di campo. Ma il discorso non cambia di molto se ci dedica all’osservazione di “Landscape IV”, dove il candore di un ghiacciaio attraversato dalle lesioni di alcuni crepacci, è affiancato, in una stampa al bromuro su metallo, al verticalismo di una roccia scura e dal profilo netto.

Che importa in fondo che si tratti di una, anzi di due, montagne? Quello che vuol trasmettere Harries non è un’estasi emozionale, data dal cospetto con la natura così com’è, ma un’emozione molto più intenzionale e maliziosa, questa è l’emozione estetica, che può anche avere a che fare con la natura, ma è molto più legata alla mente che non al corpo. La disamina potrebbe proseguire per tutte le 11 opere esposte, ma le conclusioni sarebbero le stesse. Ma bisogna però dire che qualsiasi sia l’intenzione dell’approccio alla natura di Steve Harries, il risultato è comunque artisticamente di grandissimo pregio. Poco importa in fondo se a darci quelle vibrazioni sia una roccia o un palo della luce, l’emozione è vera ed intensa. Del resto Harries è una vecchia volpe nel manipolare l’immagine (detto in senso buono, naturalmente) ha infatti lavorato con grandi brand della moda, come Alexander McQueen, Cartier, Louis Vuitton, Nike, Calvin Klein, Bottega Veneta ed altri ancora. Ha inoltre collaborato con riviste del calibro di “The New Yorker” e “Vogue”. Peccato non avere nelle proprie disponibilità immediate quei 10-12.000 euro per portarsi a casa un paio di fotografie in vendita presso la galleria.

Però con una trentina di euro mi sono portato a casa il magnifico ed originalissimo volume “Studio Botanical” del 2017, suo secondo volume dopo “Vivienne Westwood, Café Society, 1994” del 2016.

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