Steve McQueen, “Sunshine State”

Se appartenete alla vasta categoria di persone che credono che l’arte sia in fondo un passatempo, o solo “la ricerca” del bello come dicono ministri, sottosegretari, docenti di liceo e assessori, allora fate a meno di leggere questo pezzo e, soprattutto, fate a meno di andare all’Hangar Pirelli Bicocca per vedere “Sunshine State”, la magnifica ed inquietante esposizione dei video di Steve McQueen. Ma se al contrario, appartenete agli “altri”, alle teste matte come me (chiamiamoli così per comodità e brevità), allora andateci con convinzione, poiché i sei video e un’opera plastica del grande film-maker britannico, sono di valore assoluto.

È inutile dire che entrare in uno spazio come quello dell’Hangar Pirelli è di per sé, una esperienza esistenziale, anche se lo spazio fosse privo di opere, perché qui è l’horror vacui, provocato dal gigantesco edificio, ad essere già sempre protagonista. E Steve McQueen questo lo sa, e proprio per questo, i video sono distribuiti in maniera assolutamente magistrale all’interno dell’Hangar: a proiezioni gigantesche si alternano proiezioni minuscole, a schermi semplici se ne accosta uno a doppia faccia. Ad accogliere il visitatore è uno dei più bei video di McQueen (ed uno dei più belli di tutta l’arte contemporanea), ovvero “Static” del 2009. Si tratta di una vertiginosa ripresa fatta da un elicottero che vortica intorno alla Statua della Libertà. La ripresa alterna campi lunghi sulla statua e sullo sfondo dello skyline newyorkese, a “close-up” stringenti che indugiano su particolari della gigantesca statua, mostrandone la corrosione o l’ossidazione del metallo, il tutto con l’assordante rumore del rotore dell’elicottero che a tratti si quieta fino ad arrivare ad uno stato di silenzio.

Forse una ricerca sul senso del concetto di libertà dei nostri giorni, forse una riflessione visiva su un’icona del nostro tempo. Oppure, sempre forse, una ripresa di Miss Liberty da un elicottero. Non essendo un professore o un assessore, sono esonerato da compiti celebrativi e posso godermi il fascinosissimo video senza altre preoccupazioni di sorta. Il secondo video, di cui vorrei parlare, è “Charlotte” del 2004 che mostra un primissimo piano di un occhio di Charlotte Rampling, torturato dal dito dell’artista. Il video realizzato con un filtro rosso sangue e girato in 16mm, è un piccolo capolavoro di disequilibrio: disturbante, irritante, concettualmente molto complesso, riguarda l’atto del vedere e la sua negazione, un duello silenzioso tra l’occhio dell’attrice e il dito dell’artista. Solo un’altra sequenza del cinema aveva indugiato con tanta intensità sull’atto del vedere e sulla sua negazione, l’occhio lacerato da un rasoio in “Un chien Andalou” di Louis Bunuel e Salvador Dalì.

All’Hangar è presentato per la prima volta al pubblico “Sunshine State” che dà il titolo all’intera mostra, un video a doppio schermo che inizia con una straordinaria e apparentemente statica immagine infuocata del sole, accompagnata dalle parole dello stesso artista che ripete come un mantra “Shine on me Sunshine State”, ovvero “Risplendi su di me stato del sole” e che prosegue in dissolvenza con estratti del film “The Jazz Singer” del 1927 con protagonista Al Jolson, le cui scene sono proiettate anche in negativo e al contrario. Una allusione evidente, oltre che di grande raffinatezza, alla magia e alla malia della visione (naturale ed artificiale).

Ma è con “Western Deep”, proiettato nello spazio del Cubo, che la mostra raggiunge il suo apice nella capacità di rendere inquieto, se non proprio oppresso il visitatore. Il film, girato nella miniera d’oro di Tautona in Sudafrica, riproduce in tempo reale la discesa dei minatori su di un terrificante e sferragliante montacarichi, fino a tremila metri sottoterra. La ripresa dell’oscurità della discesa, interrotta a tratti dalle luci di servizio e da quelle dei caschi dei minatori, è quanto di più terribile possa mostrare “le cinema du reel” come lo chiamano i francesi.

L’angosciosa fatica di questo lavoro è resa ancora più tangibile dalle sequenze in cui ai minatori viene misurata la temperatura corporea che si altera a causa dell’umidità e del calore all’interno della miniera. Da vero incubo la selezione con la quale i minatori vengono scelti per scendere in quell’inferno: un esercizio ritmico del corpo scandito da un segnale acustico che rende ragione, attraverso il film di Steve McQueen, di quell’inferno quanto mai concreto e reale. Una mostra che è in realtà un’esperienza estetica e traumatica, non adatta alle anime belle alla ricerca della “bellezza che salverà il mondo”, ma molto adatta a chi sceglie l’arte come mezzo privilegiato di conoscenza.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Steve McQueen, “Sunshine State”

Se appartenete alla vasta categoria di persone che credono che l’arte sia in fondo un passatempo, o solo “la ricerca” del bello come dicono ministri, sottosegretari, docenti di liceo e assessori, allora fate a meno di leggere questo pezzo e, soprattutto, fate a meno di andare all’Hangar Pirelli Bicocca per vedere “Sunshine State”, la magnifica ed inquietante esposizione dei video di Steve McQueen. Ma se al contrario, appartenete agli “altri”, alle teste matte come me (chiamiamoli così per comodità e brevità), allora andateci con convinzione, poiché i sei video e un’opera plastica del grande film-maker britannico, sono di valore assoluto.

È inutile dire che entrare in uno spazio come quello dell’Hangar Pirelli è di per sé, una esperienza esistenziale, anche se lo spazio fosse privo di opere, perché qui è l’horror vacui, provocato dal gigantesco edificio, ad essere già sempre protagonista. E Steve McQueen questo lo sa, e proprio per questo, i video sono distribuiti in maniera assolutamente magistrale all’interno dell’Hangar: a proiezioni gigantesche si alternano proiezioni minuscole, a schermi semplici se ne accosta uno a doppia faccia. Ad accogliere il visitatore è uno dei più bei video di McQueen (ed uno dei più belli di tutta l’arte contemporanea), ovvero “Static” del 2009. Si tratta di una vertiginosa ripresa fatta da un elicottero che vortica intorno alla Statua della Libertà. La ripresa alterna campi lunghi sulla statua e sullo sfondo dello skyline newyorkese, a “close-up” stringenti che indugiano su particolari della gigantesca statua, mostrandone la corrosione o l’ossidazione del metallo, il tutto con l’assordante rumore del rotore dell’elicottero che a tratti si quieta fino ad arrivare ad uno stato di silenzio.

Forse una ricerca sul senso del concetto di libertà dei nostri giorni, forse una riflessione visiva su un’icona del nostro tempo. Oppure, sempre forse, una ripresa di Miss Liberty da un elicottero. Non essendo un professore o un assessore, sono esonerato da compiti celebrativi e posso godermi il fascinosissimo video senza altre preoccupazioni di sorta. Il secondo video, di cui vorrei parlare, è “Charlotte” del 2004 che mostra un primissimo piano di un occhio di Charlotte Rampling, torturato dal dito dell’artista. Il video realizzato con un filtro rosso sangue e girato in 16mm, è un piccolo capolavoro di disequilibrio: disturbante, irritante, concettualmente molto complesso, riguarda l’atto del vedere e la sua negazione, un duello silenzioso tra l’occhio dell’attrice e il dito dell’artista. Solo un’altra sequenza del cinema aveva indugiato con tanta intensità sull’atto del vedere e sulla sua negazione, l’occhio lacerato da un rasoio in “Un chien Andalou” di Louis Bunuel e Salvador Dalì.

All’Hangar è presentato per la prima volta al pubblico “Sunshine State” che dà il titolo all’intera mostra, un video a doppio schermo che inizia con una straordinaria e apparentemente statica immagine infuocata del sole, accompagnata dalle parole dello stesso artista che ripete come un mantra “Shine on me Sunshine State”, ovvero “Risplendi su di me stato del sole” e che prosegue in dissolvenza con estratti del film “The Jazz Singer” del 1927 con protagonista Al Jolson, le cui scene sono proiettate anche in negativo e al contrario. Una allusione evidente, oltre che di grande raffinatezza, alla magia e alla malia della visione (naturale ed artificiale).

Ma è con “Western Deep”, proiettato nello spazio del Cubo, che la mostra raggiunge il suo apice nella capacità di rendere inquieto, se non proprio oppresso il visitatore. Il film, girato nella miniera d’oro di Tautona in Sudafrica, riproduce in tempo reale la discesa dei minatori su di un terrificante e sferragliante montacarichi, fino a tremila metri sottoterra. La ripresa dell’oscurità della discesa, interrotta a tratti dalle luci di servizio e da quelle dei caschi dei minatori, è quanto di più terribile possa mostrare “le cinema du reel” come lo chiamano i francesi.

L’angosciosa fatica di questo lavoro è resa ancora più tangibile dalle sequenze in cui ai minatori viene misurata la temperatura corporea che si altera a causa dell’umidità e del calore all’interno della miniera. Da vero incubo la selezione con la quale i minatori vengono scelti per scendere in quell’inferno: un esercizio ritmico del corpo scandito da un segnale acustico che rende ragione, attraverso il film di Steve McQueen, di quell’inferno quanto mai concreto e reale. Una mostra che è in realtà un’esperienza estetica e traumatica, non adatta alle anime belle alla ricerca della “bellezza che salverà il mondo”, ma molto adatta a chi sceglie l’arte come mezzo privilegiato di conoscenza.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.