Girare un film sul cinema è una tentazione a cui pochi registi hanno saputo resistere, soprattutto in età matura o a fine carriera. Qualcuno lo ha fatto prima, come François Truffaut con “Effetto notte” o Wim Wenders con “Lo stato delle cose”, qualcuno dopo come Federico Fellini o Woody Allen, qualcun altro lo ha fatto solo perché ci aspettava lo facesse, come Giuseppe Tornatore. Alla tentazione ha ceduto anche Steven Spielberg con “The Fabelmans”, in questi giorni nelle sale. Ma, rispetto ai registi citati, la sua non è una semplice riflessione sul cinema o sulla impossibilità di girare un film, come nel caso di Wenders. “The Fabelmans” è qualcosa che sta tra un racconto autobiografico e una seduta psicanalitica.

Sammy Fabelman si appassiona presto a cineprese e cinema: figlio di un geniale ingegnere elettronico, Burt, e di una pianista un po’ sconclusionata, Mitzi, Sammy cresce tra l’Arizona e la California a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Proprio grazie (o a causa) della sua passione per la cinepresa, analizzando casualmente le immagini da lui girate, durante il montaggio di un filmino famigliare, Sammy scopre l’intrallazzo amoroso tra la madre Mitzi e il caro amico di famiglia Bennie, con il quale poi la donna se ne andrà via da casa. Cosa abbia spinto Spielberg ad una confessione autobiografica tanto drammatica è abbastanza semplice da intuire, anche alla luce delle dialettiche famigliari ed esistenziali presenti nel film. Tra le due anime della famiglia, quella tecnologico-scientifica del padre (e delle sorelle di Sammy) e quella artistica della madre, prevale in Sammy l’anima artistica che, secondo un cliché un po’ stantio, ma indubbiamente verosimile, è nutrita di estro ma anche di sregolatezza. Saranno l’incontro, negli “Studios” di Hollywood, con John Ford e gli inizialmente incomprensibili consigli del grande vecchio del cinema americano, a determinare definitivamente la strada da intraprendere.

John Ford dice al giovane Sammy parole tagliate con l’accetta, ma semplicemente geniali: “Se in una inquadratura la linea dell’orizzonte è in alto è un buon film, se è in basso è un buon film, se è a metà sarà una noiosa merda”. Film semplicemente bellissimo, fatto con misura, tempi lunghi e narrazione lenta, con immagini pervase da un nitore che consente di “rivedere” gli anni Cinquanta e Sessanta, proprio come ci sono già apparsi attraverso le immagini di tanto cinema. Un film dove una dolorosissima vicenda famigliare viene svelata e resa ancora più lacerante dalla immensa “sapienza cinematografica” con cui viene raccontata.

Lodi sperticate al giovane Gabriel LaBelle nei panni di Sammy Fabelman, a Michelle Williams nella parte della evanescente madre Mitzi e a Paul Dano che interpreta il candido e pragmatico Burt Fabelman, padre di Sammy.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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The Fabelmans

Girare un film sul cinema è una tentazione a cui pochi registi hanno saputo resistere, soprattutto in età matura o a fine carriera. Qualcuno lo ha fatto prima, come François Truffaut con “Effetto notte” o Wim Wenders con “Lo stato delle cose”, qualcuno dopo come Federico Fellini o Woody Allen, qualcun altro lo ha fatto solo perché ci aspettava lo facesse, come Giuseppe Tornatore. Alla tentazione ha ceduto anche Steven Spielberg con “The Fabelmans”, in questi giorni nelle sale. Ma, rispetto ai registi citati, la sua non è una semplice riflessione sul cinema o sulla impossibilità di girare un film, come nel caso di Wenders. “The Fabelmans” è qualcosa che sta tra un racconto autobiografico e una seduta psicanalitica.

Sammy Fabelman si appassiona presto a cineprese e cinema: figlio di un geniale ingegnere elettronico, Burt, e di una pianista un po’ sconclusionata, Mitzi, Sammy cresce tra l’Arizona e la California a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Proprio grazie (o a causa) della sua passione per la cinepresa, analizzando casualmente le immagini da lui girate, durante il montaggio di un filmino famigliare, Sammy scopre l’intrallazzo amoroso tra la madre Mitzi e il caro amico di famiglia Bennie, con il quale poi la donna se ne andrà via da casa. Cosa abbia spinto Spielberg ad una confessione autobiografica tanto drammatica è abbastanza semplice da intuire, anche alla luce delle dialettiche famigliari ed esistenziali presenti nel film. Tra le due anime della famiglia, quella tecnologico-scientifica del padre (e delle sorelle di Sammy) e quella artistica della madre, prevale in Sammy l’anima artistica che, secondo un cliché un po’ stantio, ma indubbiamente verosimile, è nutrita di estro ma anche di sregolatezza. Saranno l’incontro, negli “Studios” di Hollywood, con John Ford e gli inizialmente incomprensibili consigli del grande vecchio del cinema americano, a determinare definitivamente la strada da intraprendere.

John Ford dice al giovane Sammy parole tagliate con l’accetta, ma semplicemente geniali: “Se in una inquadratura la linea dell’orizzonte è in alto è un buon film, se è in basso è un buon film, se è a metà sarà una noiosa merda”. Film semplicemente bellissimo, fatto con misura, tempi lunghi e narrazione lenta, con immagini pervase da un nitore che consente di “rivedere” gli anni Cinquanta e Sessanta, proprio come ci sono già apparsi attraverso le immagini di tanto cinema. Un film dove una dolorosissima vicenda famigliare viene svelata e resa ancora più lacerante dalla immensa “sapienza cinematografica” con cui viene raccontata.

Lodi sperticate al giovane Gabriel LaBelle nei panni di Sammy Fabelman, a Michelle Williams nella parte della evanescente madre Mitzi e a Paul Dano che interpreta il candido e pragmatico Burt Fabelman, padre di Sammy.

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.