The Killers of the Flower Moon

Dalla rubrica Chez Mimich

Temo che l’americano medio, se non fosse un’astrazione, potrebbe assomigliare a Ernest Burkhart, almeno quanto l’italiano medio potrebbe assomigliare al ragionier Fantozzi (ma anche a Don Vito Corleone). Ernest Burkhart è un innamorato del denaro, come molti azzeccati stereotipi americani e, per rincorrerlo senza eccessivi scrupoli, di ritorno in Oklahoma dalla Grande Guerra, si mette al servizio dello zio William Hale, facente parte del potentato della Contea di Osage, territorio indiano adagiato su grandi giacimenti petroliferi che, naturalmente, fanno gola ai non nativi.

Solo che questa volta le parti sono invertite, poiché sono gli indiani a fare profitti col petrolio e ai “visi pallidi” tocca solo stare alla finestra. Ma, naturalmente, le cose non sono così semplici poiché William Hale (un magnifico Robert De Niro), architetta un diabolico meccanismo per far morire più indiani possibile, cercando, attraverso apparentamenti forzati, di diventare il destinatario ultimo dei diritti sulle estrazioni petrolifere. Cosa c’è di più semplice, quindi, che far sposare il nipote Ernest Burkhart con la malaticcia Molly, giovane donna Osage per poi contribuire attivamente alla sua morte? La storia affonda le radici in quella storia d’America che mette spesso i brividi e che allinea gli Stati Uniti d’America alla storia di tutte le nazioni del pianeta, in fatto di sopraffazione delle minoranze, sovranismi e imperialismi, tutti assimilati con pochissime distinzioni. Martin Scorsese (questa volta regista e co-autore della sceneggiatura con Erik Roth) ha costruito la sua intera carriera di regista, ponendo lo sguardo su un’America cinica e spietata, al cui anelito per la libertà (e il liberismo) ha unito spesso e volentieri un rapace desiderio di possesso che, se non ne ha certo fatto l’impero del male, non ne ha fatto nemmeno il paradiso in terra (soprattutto per i non -americani).

“Killers of the Flower Moon” sembra essere un “colossal intimistico” che illumina un momento ed un luogo circoscritto e poco noto della storia americana. Si tratta di un film dall’andamento lento, caratterizzato da una narrazione filmica che scava nelle profondità di questa fosca vicenda e lo fa con una capacità anche documentaria di grande efficacia. Va ricordato, proprio in omaggio a questo aspetto storico-documentario presente nel film, che è attorno a questi episodi di morti più che sospette che nasce, proprio per la denuncia che rappresentanti della Nazione Osage fecero a Washington, il primo nucleo di quella che poi diventò la potentissima (e discussa) FBI. Se un attempato e ancor più affascinante Robert De Niro dà vita ad un William Hale credibile e diabolico con moderazione, un imbolsito Leonardo Di Caprio, interpreta Ernest Burkhart strizzando sempre l’occhio al ghigno “padrinesco” di Marlon Brando, tanto da far pensare ad una citazione voluta e ricercata dallo stesso Scorsese (che non è certo un campione in quanto a libertà concessa agli attori).

A completare questo magnifico mélange di qualità, mettiamoci pure tranquillamente la raffinatissima colonna sonora di Robbie Robertson. Chi meglio di lui, figlio di un padre esponente della Nazione Mohawk, poteva commentare sequenze così poeticamente e potentemente drammatiche? Vale solo la pena ricordare che uno dei capolavori del compositore e chitarrista è proprio quel “Music for Native Americans” che mai si finirebbe di ascoltare. Film da vedere il prima possibile e magari rivedere. Tenete un posto sullo scaffale dei capolavori…

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Temo che l’americano medio, se non fosse un’astrazione, potrebbe assomigliare a Ernest Burkhart, almeno quanto l’italiano medio potrebbe assomigliare al ragionier Fantozzi (ma anche a Don Vito Corleone). Ernest Burkhart è un innamorato del denaro, come molti azzeccati stereotipi americani e, per rincorrerlo senza eccessivi scrupoli, di ritorno in Oklahoma dalla Grande Guerra, si mette al servizio dello zio William Hale, facente parte del potentato della Contea di Osage, territorio indiano adagiato su grandi giacimenti petroliferi che, naturalmente, fanno gola ai non nativi.

Solo che questa volta le parti sono invertite, poiché sono gli indiani a fare profitti col petrolio e ai “visi pallidi” tocca solo stare alla finestra. Ma, naturalmente, le cose non sono così semplici poiché William Hale (un magnifico Robert De Niro), architetta un diabolico meccanismo per far morire più indiani possibile, cercando, attraverso apparentamenti forzati, di diventare il destinatario ultimo dei diritti sulle estrazioni petrolifere. Cosa c’è di più semplice, quindi, che far sposare il nipote Ernest Burkhart con la malaticcia Molly, giovane donna Osage per poi contribuire attivamente alla sua morte? La storia affonda le radici in quella storia d’America che mette spesso i brividi e che allinea gli Stati Uniti d’America alla storia di tutte le nazioni del pianeta, in fatto di sopraffazione delle minoranze, sovranismi e imperialismi, tutti assimilati con pochissime distinzioni. Martin Scorsese (questa volta regista e co-autore della sceneggiatura con Erik Roth) ha costruito la sua intera carriera di regista, ponendo lo sguardo su un’America cinica e spietata, al cui anelito per la libertà (e il liberismo) ha unito spesso e volentieri un rapace desiderio di possesso che, se non ne ha certo fatto l’impero del male, non ne ha fatto nemmeno il paradiso in terra (soprattutto per i non -americani).

“Killers of the Flower Moon” sembra essere un “colossal intimistico” che illumina un momento ed un luogo circoscritto e poco noto della storia americana. Si tratta di un film dall’andamento lento, caratterizzato da una narrazione filmica che scava nelle profondità di questa fosca vicenda e lo fa con una capacità anche documentaria di grande efficacia. Va ricordato, proprio in omaggio a questo aspetto storico-documentario presente nel film, che è attorno a questi episodi di morti più che sospette che nasce, proprio per la denuncia che rappresentanti della Nazione Osage fecero a Washington, il primo nucleo di quella che poi diventò la potentissima (e discussa) FBI. Se un attempato e ancor più affascinante Robert De Niro dà vita ad un William Hale credibile e diabolico con moderazione, un imbolsito Leonardo Di Caprio, interpreta Ernest Burkhart strizzando sempre l’occhio al ghigno “padrinesco” di Marlon Brando, tanto da far pensare ad una citazione voluta e ricercata dallo stesso Scorsese (che non è certo un campione in quanto a libertà concessa agli attori).

A completare questo magnifico mélange di qualità, mettiamoci pure tranquillamente la raffinatissima colonna sonora di Robbie Robertson. Chi meglio di lui, figlio di un padre esponente della Nazione Mohawk, poteva commentare sequenze così poeticamente e potentemente drammatiche? Vale solo la pena ricordare che uno dei capolavori del compositore e chitarrista è proprio quel “Music for Native Americans” che mai si finirebbe di ascoltare. Film da vedere il prima possibile e magari rivedere. Tenete un posto sullo scaffale dei capolavori…

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Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.