Trilogia della città di K

Il titolo della stagione di quest’anno del Piccolo Teatro di Milano, non lasciava spazio a troppo ambiguità: “Il corpo delle parole”, segno che doveva essere proprio la scrittura (e non il gesto o la scena) il filo conduttore degli spettacoli della stagione. Nessuno però degli spettacoli visti fino ad oggi ha il suo “corpo” completamente nella parola come quello visto sabato scorso al Teatro Studio Melato, ovvero “Trilogia della città di K.” tratto dai testi di Àgota Kristof. L’idea di portare in scena i tre libri della scrittrice grande ungherese ovvero, “Il grande quaderno”, “La prova” e “La terza menzogna”, scritti tra 1986 e il 1991 quando Àgota Krsitof viveva a Neuchatel, dopo la fuga dalla Budapest invasa dall’esercito sovietico nel 1956, è venuta a Federica Fracassi con i suoi “partner in crime”, Luigi De Angeli e Chiara Lagani (detti Fanny e Alexander).

La scrittura di Àgota Kristof è generatrice di una educazione “a-sentimentale”, tanto vale dirlo subito e non edulcorare la pillola. Assistere alla messa in scena dei suoi testi (dei tre volumi avevo letto solo “La Prova”, ma avevo letto altri suoi libri), significa sottoporsi ad un trattamento di svuotamento e sostituzione delle naturali affettività per raggiungere uno stato di indifferenza verso l’atrocità del dolore. La fiaba nera messa in scena richiede grande impegno psicologico allo spettatore, a guidarlo in questa discesa agli inferi, è la scrittura che si rivela però essere anche l’unica forma di sopravvivenza possibile, quando la crudeltà dei fatti e la spietatezza delle azioni diventano insopportabili. A causa dello scoppio della guerra, due gemelli, Lucas e Claus lasciano, con la madre, la grande città capitale per essere portati in una piccola città di confine presso la nonna che però, a sua volta vittima di un abbandono, si rivela essere cinica e spietata se non proprio crudele. Crescendo uno dei due gemelli, Lucas decide di varcare quel confine, lasciando per sempre l’altro che condurrà la sua vita a K. (che fa riferimento alla città ungherese di Koszeg presso il confine austriaco).

Anche la vita di Klaus sarà una vita di sentimenti neutralizzati dal dolore e attraverso il dolore. Il ricongiungimento (più immaginario che reale), col gemello fuggito altrove si rivelerà anch’esso un crudele esercizio di dolore senza purificazione. Un dramma senza vie di fuga verrebbe da chiedersi? No, la via di fuga esiste ed attraversa come un filo rosso tutto il lungo spettacolo ed è la stessa via di fuga che adottò Àgota Kristof nella sua travagliata esistenza: l’esercizio della scrittura. Del resto è proprio il padre dei gemelli, prima di essere ucciso dalla madre, ad esortarli, all’inizio della vicenda, a scrivere tutto ciò che vedono, a fissare ciò che accade, sui loro quaderni. Nella pièce vengono chiamati impropriamente “quaderni dei compiti”, ma è evidente che si tratti del diario personale di Klaus e su quei quaderni dai quali dovrebbero essere banditi i sentimenti e “pieni di menzogne” come saranno definiti, passa questo processo di educazione all’indifferenza che é la via salvifica adottata dalla stessa Àgota Kristof. Spesso Klaus ripete che non vuole fare niente nella vita, tranne forse scrivere un libro, perché chi non lo fa “lascia il mondo senza lasciare traccia”. Klaus non ha altre aspirazioni, cerca solo di sopravvivere alla crudeltà dell’esistenza e per farlo, scrive.

Va ricordato che la scrittrice ungherese scrive in una lingua straniera, il francese e con un po’ di coraggio non si può fare a meno di pensare ad un altro gigante della letteratura, dalla visione altrettanto lucidamente cupa, che scriveva in una lingua non materna, Samuel Beckett. Non sembri azzardato questo paragone o almeno non lo sembri, fino a quando il lettore (o lo spettatore in questo caso), avrà tra le mani le pagine della trilogia o il testo di questo magnifico spettacolo.

Infine, non si può che non salutare con entusiasmo la mise-en-scene “eterodiretta” come la definisce la stessa Fracassi e che, ricordiamolo, è anche l’ attrice che interpreta nella prima parte la figura di Àgota Kristof. L’etero-direzione” trasforma l’attore in un performer: nessun testo è memorizzato ma trasmesso attraverso auricolari che l’attore ripete facendolo precedere dalla descrizione di ciò che sta per accadere, una soluzione geniale che permette di ricordare allo spettatore-testimone che si tratta di un testo non teatrale ma di una cronaca, hic et nunc del dolore e della sua possibilità di neutralizzazione attraverso la scrittura. Gli attori-performer si muovono come mossi da fili con un movimento appena accennato in una scena, altro grande punto di forza, fatta oltre che dallo straordinario vuoto del Teatro Studio, da una fitta serie di schermi elettronici appesi e mobili che definiscono spazi, creano ambienti e atmosfere. La trovata del bambino gigante completamente fuori misura, che compare da una botola dello spazio scenico e altrettanto vi scompare e con cui interagisce Klaus, opera di Nicola Fagnani, quasi un omaggio a Ron Mueck (in queste settimane alla Triennale), è un po’ come la ciliegina sulla torta di uno spettacolo di rara intensità e di grande fascino.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Il titolo della stagione di quest’anno del Piccolo Teatro di Milano, non lasciava spazio a troppo ambiguità: “Il corpo delle parole”, segno che doveva essere proprio la scrittura (e non il gesto o la scena) il filo conduttore degli spettacoli della stagione. Nessuno però degli spettacoli visti fino ad oggi ha il suo “corpo” completamente nella parola come quello visto sabato scorso al Teatro Studio Melato, ovvero “Trilogia della città di K.” tratto dai testi di Àgota Kristof. L’idea di portare in scena i tre libri della scrittrice grande ungherese ovvero, “Il grande quaderno”, “La prova” e “La terza menzogna”, scritti tra 1986 e il 1991 quando Àgota Krsitof viveva a Neuchatel, dopo la fuga dalla Budapest invasa dall’esercito sovietico nel 1956, è venuta a Federica Fracassi con i suoi “partner in crime”, Luigi De Angeli e Chiara Lagani (detti Fanny e Alexander).

La scrittura di Àgota Kristof è generatrice di una educazione “a-sentimentale”, tanto vale dirlo subito e non edulcorare la pillola. Assistere alla messa in scena dei suoi testi (dei tre volumi avevo letto solo “La Prova”, ma avevo letto altri suoi libri), significa sottoporsi ad un trattamento di svuotamento e sostituzione delle naturali affettività per raggiungere uno stato di indifferenza verso l’atrocità del dolore. La fiaba nera messa in scena richiede grande impegno psicologico allo spettatore, a guidarlo in questa discesa agli inferi, è la scrittura che si rivela però essere anche l’unica forma di sopravvivenza possibile, quando la crudeltà dei fatti e la spietatezza delle azioni diventano insopportabili. A causa dello scoppio della guerra, due gemelli, Lucas e Claus lasciano, con la madre, la grande città capitale per essere portati in una piccola città di confine presso la nonna che però, a sua volta vittima di un abbandono, si rivela essere cinica e spietata se non proprio crudele. Crescendo uno dei due gemelli, Lucas decide di varcare quel confine, lasciando per sempre l’altro che condurrà la sua vita a K. (che fa riferimento alla città ungherese di Koszeg presso il confine austriaco).

Anche la vita di Klaus sarà una vita di sentimenti neutralizzati dal dolore e attraverso il dolore. Il ricongiungimento (più immaginario che reale), col gemello fuggito altrove si rivelerà anch’esso un crudele esercizio di dolore senza purificazione. Un dramma senza vie di fuga verrebbe da chiedersi? No, la via di fuga esiste ed attraversa come un filo rosso tutto il lungo spettacolo ed è la stessa via di fuga che adottò Àgota Kristof nella sua travagliata esistenza: l’esercizio della scrittura. Del resto è proprio il padre dei gemelli, prima di essere ucciso dalla madre, ad esortarli, all’inizio della vicenda, a scrivere tutto ciò che vedono, a fissare ciò che accade, sui loro quaderni. Nella pièce vengono chiamati impropriamente “quaderni dei compiti”, ma è evidente che si tratti del diario personale di Klaus e su quei quaderni dai quali dovrebbero essere banditi i sentimenti e “pieni di menzogne” come saranno definiti, passa questo processo di educazione all’indifferenza che é la via salvifica adottata dalla stessa Àgota Kristof. Spesso Klaus ripete che non vuole fare niente nella vita, tranne forse scrivere un libro, perché chi non lo fa “lascia il mondo senza lasciare traccia”. Klaus non ha altre aspirazioni, cerca solo di sopravvivere alla crudeltà dell’esistenza e per farlo, scrive.

Va ricordato che la scrittrice ungherese scrive in una lingua straniera, il francese e con un po’ di coraggio non si può fare a meno di pensare ad un altro gigante della letteratura, dalla visione altrettanto lucidamente cupa, che scriveva in una lingua non materna, Samuel Beckett. Non sembri azzardato questo paragone o almeno non lo sembri, fino a quando il lettore (o lo spettatore in questo caso), avrà tra le mani le pagine della trilogia o il testo di questo magnifico spettacolo.

Infine, non si può che non salutare con entusiasmo la mise-en-scene “eterodiretta” come la definisce la stessa Fracassi e che, ricordiamolo, è anche l’ attrice che interpreta nella prima parte la figura di Àgota Kristof. L’etero-direzione” trasforma l’attore in un performer: nessun testo è memorizzato ma trasmesso attraverso auricolari che l’attore ripete facendolo precedere dalla descrizione di ciò che sta per accadere, una soluzione geniale che permette di ricordare allo spettatore-testimone che si tratta di un testo non teatrale ma di una cronaca, hic et nunc del dolore e della sua possibilità di neutralizzazione attraverso la scrittura. Gli attori-performer si muovono come mossi da fili con un movimento appena accennato in una scena, altro grande punto di forza, fatta oltre che dallo straordinario vuoto del Teatro Studio, da una fitta serie di schermi elettronici appesi e mobili che definiscono spazi, creano ambienti e atmosfere. La trovata del bambino gigante completamente fuori misura, che compare da una botola dello spazio scenico e altrettanto vi scompare e con cui interagisce Klaus, opera di Nicola Fagnani, quasi un omaggio a Ron Mueck (in queste settimane alla Triennale), è un po’ come la ciliegina sulla torta di uno spettacolo di rara intensità e di grande fascino.

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.