Woody Allen, Zero Gravity

Se vi piace l’umorismo surreale, se vi piace Woody Allen, se vi fidate di ciò che scrivo io, tutto non necessariamente in questo ordine, “Zero Gravity”, appena uscito presso “La Nave di Teseo” con la brillantissima traduzione di Alberto Pezzotta, è il libro che fa per voi (e anche per me). “Zero Gravity” è una irresistibile raccolta di diciannove brevi racconti, apparsi su diverse pubblicazioni a cominciare dal “New Yorker” (i famosi “casuals”), del geniale regista newyorkese. Anzi per essere precisi, diciotto “casuals” e un breve racconto serio e romantico intitolato “Crescere a Manhattan” vagamente autobiografico.

Quello di Woody è un umorismo semplice, costruito sul paradosso, col costante sussidio della citazione colta o extra-colta, una specie di “situazionismo” dell’humor di cui Allen è indubbiamente maestro. Impossibile resistere allo spaesamento surreale in cui ci fanno precipitare i suoi strampalati personaggi e le situazioni, così genialmente impensabili. Avete mai creduto possibile essere reincarnati in una aragosta e finire nell’acquario di un ristorante della Terza Avenue? Vi siete mai interrogati su una conoscenza basilare come l’origine del piatto cinese denominato “Pollo del generale Tso?” Avete mai avuto un debole per Rita Moleskine e cercato di mettervi in mostra con lei per le vostre fenomenali doti cerebrali?

Se vi dovesse accadere di desiderare spasmodicamente di voler accedere ad uno di questi saperi pratici e teoretici, non avete che da tuffarvi senza esitazione nella lettura di “Zero Gravity”. Il solo elenco dei geniali nomi dei personaggi basterebbe a rompere gli indugi: Ambrosia Wheelbase, Morey Angleworm, Nestor Grossnose, Morris Prestopnick. Basta leggere la nota di copertina dello stesso Allen per sapere a cosa si va incontro: “I miei genitori si aspettavano due gemelli, e furono distrutti quando scoprirono che c’ero solo io. Non riuscivano a farsene una ragione. Per i primi anni mi vestirono come due gemelli. Due berretti, due paia di scarpe. Ancora oggi mi chiedono di Chester.”

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Mario Grella

Nato a Novara, vissuto mentalmente a Parigi, continua a credere che la vita reale sia un ottimo surrogato del web.

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Woody Allen, Zero Gravity

Se vi piace l’umorismo surreale, se vi piace Woody Allen, se vi fidate di ciò che scrivo io, tutto non necessariamente in questo ordine, “Zero Gravity”, appena uscito presso “La Nave di Teseo” con la brillantissima traduzione di Alberto Pezzotta, è il libro che fa per voi (e anche per me). “Zero Gravity” è una irresistibile raccolta di diciannove brevi racconti, apparsi su diverse pubblicazioni a cominciare dal “New Yorker” (i famosi “casuals”), del geniale regista newyorkese. Anzi per essere precisi, diciotto “casuals” e un breve racconto serio e romantico intitolato “Crescere a Manhattan” vagamente autobiografico.

Quello di Woody è un umorismo semplice, costruito sul paradosso, col costante sussidio della citazione colta o extra-colta, una specie di “situazionismo” dell’humor di cui Allen è indubbiamente maestro. Impossibile resistere allo spaesamento surreale in cui ci fanno precipitare i suoi strampalati personaggi e le situazioni, così genialmente impensabili. Avete mai creduto possibile essere reincarnati in una aragosta e finire nell’acquario di un ristorante della Terza Avenue? Vi siete mai interrogati su una conoscenza basilare come l’origine del piatto cinese denominato “Pollo del generale Tso?” Avete mai avuto un debole per Rita Moleskine e cercato di mettervi in mostra con lei per le vostre fenomenali doti cerebrali?

Se vi dovesse accadere di desiderare spasmodicamente di voler accedere ad uno di questi saperi pratici e teoretici, non avete che da tuffarvi senza esitazione nella lettura di “Zero Gravity”. Il solo elenco dei geniali nomi dei personaggi basterebbe a rompere gli indugi: Ambrosia Wheelbase, Morey Angleworm, Nestor Grossnose, Morris Prestopnick. Basta leggere la nota di copertina dello stesso Allen per sapere a cosa si va incontro: “I miei genitori si aspettavano due gemelli, e furono distrutti quando scoprirono che c’ero solo io. Non riuscivano a farsene una ragione. Per i primi anni mi vestirono come due gemelli. Due berretti, due paia di scarpe. Ancora oggi mi chiedono di Chester.”

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