Il 13 settembre dello scorso anno Mahsa Amini, giovane studentessa iraniana, veniva arrestata a Teheran dagli agenti della cosiddetta Polizia morale per il semplice fatto di non aver completamente coperto i capelli con il velo islamico. Secondo alcuni testimoni oculari la giovane avrebbe subito un autentico pestaggio durante il trasferimento. Un’aggressione di una brutalità tale da provocarne il decesso dopo tre giorni.
Sabato pomeriggio, 16 settembre, nel primo anniversario della sua morte, Mahsa è stata ricordata in una quarantina di città di tutta Italia con un sit e una raccolta di firme promossa da Amnesty International. A Novara questo momento, a cura del locale Gruppo 046, si è tenuto in piazza Duomo con un gazebo, dove i responsabili dell’organizzazione hanno avuto la possibilità di spiegare ai cittadini l’attività svolta.
«La repressione da parte delle autorità iraniane della rivolta popolare scoppiata subito dopo la morte di Mahsa – ha spiegato Franca Di Franco, responsabile del gruppo novarese di Amnesty International – è l’ultima di un ciclo di violenti attacchi contro chi da tempo manifesta il suo dissenso. A oggi sappiamo che circa 500 sono le persone uccise e oltre 20 mila quelle arrestate».
Ma che cosa succede a un anno di distanza? «Apparentemente la situazione si è parzialmente placata – ha proseguito Di Franco – ma di fatto la repressione continua fortissima. In forme meno visibili, ma altrettanto violente e gravi». Il regime iraniano, additato un po’ da tutta l’opinione pubblica internazionale come “retrogrado” e contrario a qualsiasi forma di modernità, non si preoccupa però di utilizzare gli strumenti che la tecnologia digitale mette a sua disposizione: «Ecco allora che le donne che non indossano il velo vengono “pizzicate” attraverso il riconoscimento facciale o l’invio di un sms se sorprese alla guida di un’auto senza il prescritto abbigliamento», per non parlare delle espulsioni dalle scuole o dell’allontanamento dal posto di lavoro.
Per Di Franco oggi «la protesta è meno visibile, ma prosegue molto coraggiosamente in altre forme, con slogan scritte sui muri, l’esposizione di striscioni sui ponti, ma anche con donne che si presentano in pubblico senza velo», mentre il regime ha intensificato la repressione attraverso il sistematico ricorso alla pena di morte.
Un pensiero non può non andare anche alla sorte di Ahmadreza Djalali, il medico e ricercatore che ha lavorato anche a Novara all’Università del Piemonte Orientale, da sette anni detenuto e sul quale pende una condanna capitale: «Di positivo sappiamo che finalmente, almeno una volta la settimana, può sentire telefonicamente la moglie in Svezia. Dobbiamo continuare a lottare anche per lui, affinché sia rilasciato il prima possibile».