Ahmad Djalali, l’esecuzione sembra essere imminente. Sit in giovedì davanti al municipio

Ahmad Djalali, l’esecuzione sembra essere imminente. Nella giornata di oggi, mercoledì 25 novembre, Amnesty International ha appreso la notizia del trasferimento in isolamento, in vista dell‘imminente esecuzione, del ricercatore iraniano dell’Università del Piemonte Orientale.

«Le autorità iraniane intendono eseguire la condanna a morte di Djalali entro una settimana – ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International -. Nonostante i ripetuti appelli degli esperti delle Nazioni Unite per l’annullamento della condanna a morte e la scarcerazione, si va avanti verso questo irreversibile atto di ingiustizia. Chiediamo al governo iraniano di fermarsi e agli stati della comunità internazionale di intervenire attraverso le loro ambasciate a Teheran».

Domani, giovedì 26 novembre, alle 18, davanti al municipio, in via Rosselli 1, si svolgerà un sit in a cui parteciperanno anche il rettore dell’Università Giancarlo Avanzi e il sindaco Alessandro Canelli: «Esprimeremo la nostra solidarietà ma soprattutto faremo sentire la nostra voce contro l’annunciata esecuzione del medico ricercatore Ahmadreza Djalali che ha lavorato nella nostra città e che da anni è rinchiuso in un carcere iraniano e privato completamente dei suoi diritti. Una notizia devastante per la sua famiglia, per la comunità scientifica e per il nostro Paese, segno della barbarie di un regime che non rispetta la vita umana».

 

 

Djalali è stato condannato a morte nell’ottobre 2017, dopo un processo clamorosamente iniquo celebrato dalla Sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran, per “corruzione in Terra”. Il tribunale si è basato essenzialmente su “confessioni” estorte con la tortura quando Djajali, arrestato nell’aprile 2016, era detenuto in isolamento senza avere accesso a un avvocato. Durante gli interrogatori, lo hanno minacciato di morte e lo hanno terrorizzato dicendogli che avrebbero ucciso i figli residenti in Svezia e la madre che vive in Iran.

In una lettera trapelata dalla prigione di Evin nell’agosto 2017, Djalali ha denunciato che era stato arrestato solo perché aveva rifiutato di utilizzare le sue relazioni accademiche con le istituzioni europee per fare la spia in favore dell’Iran.

Il 17 dicembre 2017, una tv di stato iraniano ha mandato in onda una “confessione” di Djalali con una voce in sottofondo che lo presentava come una spia.

Per due volte, dal dicembre 2017, i suoi avvocati hanno invano chiesto una revisione giudiziaria del processo. Al contrario, il 9 dicembre 2018 hanno appreso che la prima sezione della Corte suprema aveva approvato la condanna a morte senza neanche consentire di presentare una memoria difensiva.

Nel novembre 2017 il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie ha chiesto la scarcerazione di Djalali in quanto era stato arrestato senza mandato di cattura, era stato ufficialmente incriminato dopo 10 mesi dall’arresto ed era stato «concretamente privato dell’esercizio di contestare la legalità della sua detenzione».

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Ahmad Djalali, l’esecuzione sembra essere imminente. Sit in giovedì davanti al municipio

Ahmad Djalali, l’esecuzione sembra essere imminente. Nella giornata di oggi, mercoledì 25 novembre, Amnesty International ha appreso la notizia del trasferimento in isolamento, in vista dell‘imminente esecuzione, del ricercatore iraniano dell’Università del Piemonte Orientale.

«Le autorità iraniane intendono eseguire la condanna a morte di Djalali entro una settimana – ha dichiarato Diana Eltahawy, vicedirettrice per il Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International -. Nonostante i ripetuti appelli degli esperti delle Nazioni Unite per l’annullamento della condanna a morte e la scarcerazione, si va avanti verso questo irreversibile atto di ingiustizia. Chiediamo al governo iraniano di fermarsi e agli stati della comunità internazionale di intervenire attraverso le loro ambasciate a Teheran».

Domani, giovedì 26 novembre, alle 18, davanti al municipio, in via Rosselli 1, si svolgerà un sit in a cui parteciperanno anche il rettore dell’Università Giancarlo Avanzi e il sindaco Alessandro Canelli: «Esprimeremo la nostra solidarietà ma soprattutto faremo sentire la nostra voce contro l’annunciata esecuzione del medico ricercatore Ahmadreza Djalali che ha lavorato nella nostra città e che da anni è rinchiuso in un carcere iraniano e privato completamente dei suoi diritti. Una notizia devastante per la sua famiglia, per la comunità scientifica e per il nostro Paese, segno della barbarie di un regime che non rispetta la vita umana».

 

 

Djalali è stato condannato a morte nell’ottobre 2017, dopo un processo clamorosamente iniquo celebrato dalla Sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Teheran, per “corruzione in Terra”. Il tribunale si è basato essenzialmente su “confessioni” estorte con la tortura quando Djajali, arrestato nell’aprile 2016, era detenuto in isolamento senza avere accesso a un avvocato. Durante gli interrogatori, lo hanno minacciato di morte e lo hanno terrorizzato dicendogli che avrebbero ucciso i figli residenti in Svezia e la madre che vive in Iran.

In una lettera trapelata dalla prigione di Evin nell’agosto 2017, Djalali ha denunciato che era stato arrestato solo perché aveva rifiutato di utilizzare le sue relazioni accademiche con le istituzioni europee per fare la spia in favore dell’Iran.

Il 17 dicembre 2017, una tv di stato iraniano ha mandato in onda una “confessione” di Djalali con una voce in sottofondo che lo presentava come una spia.

Per due volte, dal dicembre 2017, i suoi avvocati hanno invano chiesto una revisione giudiziaria del processo. Al contrario, il 9 dicembre 2018 hanno appreso che la prima sezione della Corte suprema aveva approvato la condanna a morte senza neanche consentire di presentare una memoria difensiva.

Nel novembre 2017 il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie ha chiesto la scarcerazione di Djalali in quanto era stato arrestato senza mandato di cattura, era stato ufficialmente incriminato dopo 10 mesi dall’arresto ed era stato «concretamente privato dell’esercizio di contestare la legalità della sua detenzione».

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