«Al cimitero ho rappresentato l’affetto dei famigliari nel momento dell’ultimo saluto»

Per alcune settimane ha avuto l’incarico di accogliere al cimitero di Novara diverse bare, anche quelle provenienti da Bergamo. E’ stato lì, all’ingresso del campo, per un un ultimo saluto, una benedizione, uno sguardo. Don Andrea Mancini, parroco della Bicocca racconta quei momenti, ormai al passato perché i frati di San Lazzaro sono di nuovo disponibili.

Come ha affrontato questo suo ruolo, dal punto di vista sia umano, sia religioso?
Erano le 9.17 del 27 marzo quando il vicario generale della diocesi mi raggiunse telefonicamente per chiedermi la disponibilità a sostituire per un certo tempo i frati di San Nazzaro, temporaneamente impossibilitati, nel servizio al cimitero cittadino che sorge sul territorio della mia parrocchia. Sarebbero arrivate in mattinata trenta salme da Bergamo per la cremazione. Da lì in poi la richiesta a continuare il servizio nell’accoglienza di tutte le salme provenienti anche dalla nostra città.

La mia disponibilità fu praticamente immediata. Avevo appena concluso la messa celebrando la memoria del Beato Francesco Faà di Bruno, una figura purtroppo poco conosciuta, ma strettamente legata alla nostra parrocchia per aver combattuto proprio attorno alla nostra chiesa la battaglia del 23 marzo 1849. La morte di tanti giovani soldati di entrambe le fazioni, che non potevano ricevere una degna sepoltura e il saluto dei propri cari,  lo aveva segnato così profondamente da fondare anni dopo nella sua Torino un santuario dedicato proprio alla preghiera per i caduti in battaglia e a tutti defunti.  Ho sentito in quella telefonata quasi un suo dono e una chiamata a continuare, nel mio piccolo, la sua missione pregando per le tante vittime di questa terribile epidemia e per i loro famigliari.

 

 

Le è capitato di avere un contatto con i famigliari di persone defunte?
Purtroppo è capitato solo un paio di volte. Le disposizioni non lo permettevano. Ma credo di poter dire di aver vissuto un forte contatto umano e spirituale con i famigliari dei defunti, seppure “a distanza”; in fondo ero vicino a quelle bare anche a nome loro! Ho sentito molto forte questo aspetto “di rappresentare” l’affetto dei famigliari nel momento dell’ultimo saluto, oltre ovviamente alla dimensione religiosa dell’affidamento di quelle povere anime al Signore.

C’è stato un momento più difficile rispetto ad altri?
Il momento più forte, che ha segnato me, ma che ha toccato profondamente anche il personale del cimitero, è stato quando abbiamo potuto raccogliere lo sfogo di un carabiniere di scorta al secondo convoglio militare giunto da Seriate, un giovane papà, davvero stanco e afflitto nel vedere tanta morte. Non abbiamo saputo trattenere le lacrime. Ci siamo sentiti tutti deboli e impotenti, ma tanto fratelli nel far fronte a questa dura prova. Avremmo voluto abbracciarci tutti.

C’è un messaggio di speranza che si sente di rivolgere alla comunità?
Il primo grande messaggio che questa dolorosa esperienza ci offre, se la sappiamo ascoltare profondamente, è che essa ci potrà rendere più umani, più consapevoli dei nostri limiti, e più bisognosi di fraternità e sostegno reciproco. Allo stesso tempo, la dedizione e lo spirito di sacrificio del personale sanitario e di tanti operatori sociali e volontari ci impegna ancora di più a credere alle straordinarie potenzialità di bene, di solidarietà, di generosità che sono radicate nel cuore dell’uomo. Insomma, questo lungo sabato santo dell’umanità non è segnato da un’attesa vana, abbiamo sperimentato la vicinanza di un Dio Crocifisso, con noi fino alla fine, proprio per farci risorgere già ora come donne e uomini nuovi. Sì, risorgeremo come degli uomini e donne crocifissi che porteranno per sempre i segni della passione, segni che ci parleranno di dolore, ma anche e soprattutto di amore.

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«Al cimitero ho rappresentato l’affetto dei famigliari nel momento dell’ultimo saluto»

Per alcune settimane ha avuto l’incarico di accogliere al cimitero di Novara diverse bare, anche quelle provenienti da Bergamo. E’ stato lì, all’ingresso del campo, per un un ultimo saluto, una benedizione, uno sguardo. Don Andrea Mancini, parroco della Bicocca racconta quei momenti, ormai al passato perché i frati di San Lazzaro sono di nuovo disponibili.

Come ha affrontato questo suo ruolo, dal punto di vista sia umano, sia religioso?
Erano le 9.17 del 27 marzo quando il vicario generale della diocesi mi raggiunse telefonicamente per chiedermi la disponibilità a sostituire per un certo tempo i frati di San Nazzaro, temporaneamente impossibilitati, nel servizio al cimitero cittadino che sorge sul territorio della mia parrocchia. Sarebbero arrivate in mattinata trenta salme da Bergamo per la cremazione. Da lì in poi la richiesta a continuare il servizio nell’accoglienza di tutte le salme provenienti anche dalla nostra città.

La mia disponibilità fu praticamente immediata. Avevo appena concluso la messa celebrando la memoria del Beato Francesco Faà di Bruno, una figura purtroppo poco conosciuta, ma strettamente legata alla nostra parrocchia per aver combattuto proprio attorno alla nostra chiesa la battaglia del 23 marzo 1849. La morte di tanti giovani soldati di entrambe le fazioni, che non potevano ricevere una degna sepoltura e il saluto dei propri cari,  lo aveva segnato così profondamente da fondare anni dopo nella sua Torino un santuario dedicato proprio alla preghiera per i caduti in battaglia e a tutti defunti.  Ho sentito in quella telefonata quasi un suo dono e una chiamata a continuare, nel mio piccolo, la sua missione pregando per le tante vittime di questa terribile epidemia e per i loro famigliari.

 

 

Le è capitato di avere un contatto con i famigliari di persone defunte?
Purtroppo è capitato solo un paio di volte. Le disposizioni non lo permettevano. Ma credo di poter dire di aver vissuto un forte contatto umano e spirituale con i famigliari dei defunti, seppure “a distanza”; in fondo ero vicino a quelle bare anche a nome loro! Ho sentito molto forte questo aspetto “di rappresentare” l’affetto dei famigliari nel momento dell’ultimo saluto, oltre ovviamente alla dimensione religiosa dell’affidamento di quelle povere anime al Signore.

C’è stato un momento più difficile rispetto ad altri?
Il momento più forte, che ha segnato me, ma che ha toccato profondamente anche il personale del cimitero, è stato quando abbiamo potuto raccogliere lo sfogo di un carabiniere di scorta al secondo convoglio militare giunto da Seriate, un giovane papà, davvero stanco e afflitto nel vedere tanta morte. Non abbiamo saputo trattenere le lacrime. Ci siamo sentiti tutti deboli e impotenti, ma tanto fratelli nel far fronte a questa dura prova. Avremmo voluto abbracciarci tutti.

C’è un messaggio di speranza che si sente di rivolgere alla comunità?
Il primo grande messaggio che questa dolorosa esperienza ci offre, se la sappiamo ascoltare profondamente, è che essa ci potrà rendere più umani, più consapevoli dei nostri limiti, e più bisognosi di fraternità e sostegno reciproco. Allo stesso tempo, la dedizione e lo spirito di sacrificio del personale sanitario e di tanti operatori sociali e volontari ci impegna ancora di più a credere alle straordinarie potenzialità di bene, di solidarietà, di generosità che sono radicate nel cuore dell’uomo. Insomma, questo lungo sabato santo dell’umanità non è segnato da un’attesa vana, abbiamo sperimentato la vicinanza di un Dio Crocifisso, con noi fino alla fine, proprio per farci risorgere già ora come donne e uomini nuovi. Sì, risorgeremo come degli uomini e donne crocifissi che porteranno per sempre i segni della passione, segni che ci parleranno di dolore, ma anche e soprattutto di amore.

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