Appartamento a “luci rosse”, cinese a processo

tribunale il caldo

Appartamento a “luci rosse”, cinese a processo. Le indagini, che avevano portato i carabinieri di Novara a scoprire che in quell’appartamento in città si esercitava la prostituzione, erano state avviate nel 2015 e quello fu il primo appartamento sul quale, dopo la chiusura di una decina di centri massaggi cinesi, si erano concentrate le attenzioni dei militari impegnati proprio in quegli anni nell’ambito di indagini contro lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione cinese.

 

 

Era il pomeriggio del 22 aprile del 2015 quando due carabinieri, dopo aver individuato la via e il numero civico, contattarono un numero di telefono al quale rispose una donna. «Era straniera, inflessione cinese, anche se parlava bene italiano. Ci confermò l’indirizzo. Pochi minuti dopo eravamo in zona, ricontattammo il numero e, avute indicazioni, cercammo l’appartamento. In  casa trovammo una donna, anche lei di nazionalità cinese ma non era quella con cui avevamo parlato al telefono perché non parlava bene l’italiano».

Dalle indagini emerse che quell’alloggio era stato regolarmente preso in affitto da una cittadina cinese che risultava essere residente in altra regione e che, al momento della registrazione del contratto, aveva prodotto una copia della carta d’identità.

In realtà, così è emerso in aula, quella donna, oggi cinquantenne, non presente, chiamata dalla Procura a rispondere di reati connessi con la prostituzione, i carabinieri non riuscirono mai ad incontrarla di persona. Il processo proseguirà a maggio per ascoltare altri testi.

 

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Appartamento a “luci rosse”, cinese a processo. Le indagini, che avevano portato i carabinieri di Novara a scoprire che in quell’appartamento in città si esercitava la prostituzione, erano state avviate nel 2015 e quello fu il primo appartamento sul quale, dopo la chiusura di una decina di centri massaggi cinesi, si erano concentrate le attenzioni dei militari impegnati proprio in quegli anni nell’ambito di indagini contro lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione cinese.

 

 

Era il pomeriggio del 22 aprile del 2015 quando due carabinieri, dopo aver individuato la via e il numero civico, contattarono un numero di telefono al quale rispose una donna. «Era straniera, inflessione cinese, anche se parlava bene italiano. Ci confermò l’indirizzo. Pochi minuti dopo eravamo in zona, ricontattammo il numero e, avute indicazioni, cercammo l’appartamento. In  casa trovammo una donna, anche lei di nazionalità cinese ma non era quella con cui avevamo parlato al telefono perché non parlava bene l’italiano».

Dalle indagini emerse che quell’alloggio era stato regolarmente preso in affitto da una cittadina cinese che risultava essere residente in altra regione e che, al momento della registrazione del contratto, aveva prodotto una copia della carta d’identità.

In realtà, così è emerso in aula, quella donna, oggi cinquantenne, non presente, chiamata dalla Procura a rispondere di reati connessi con la prostituzione, i carabinieri non riuscirono mai ad incontrarla di persona. Il processo proseguirà a maggio per ascoltare altri testi.

 

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