Case popolari, il Tribunale boccia la richiesta di documenti aggiuntivi agli stranieri. La notizia arriva dalle aule giudiziarie di Torino e ha subito suscitato reazioni da parte dell’opposizione in Consiglio regionale.
Il Tribunale «con un’ordinanza ha accolto il ricorso presentato da ASGI (Associazione studi giuridici per l’immigrazione) contro la Regione Piemonte e ha riconosciuto riconoscendo il “carattere discriminatorio” della circolare – dichiara il Consigliere regionale del Partito Democratico Diego Sarno – con cui la Regione ha imposto ai soli cittadini extracomunitari di dimostrare l’assenza di proprietà nello Stato di nazionalità, per poter presentare domanda di accesso agli alloggi di edilizia popolare e ha, pertanto dichiarato illegittima la sospensione delle domande presentate dai cittadini stranieri che non avevano prodotto documentazione. Mi sembra chiarissimo che con questo atto il Tribunale ha chiarito che il diritto all’abitare non dipende dalla nazionalità o dal colore della pelle, ma è un diritto dell’essere umano».
«Questa ordinanza – prosegue Sarno – anticipa quanto potrebbe accadere alla legge dell’Assessora Caucino sul tema dell’edilizia sociale che mira a prevedere una corsia preferenziale per i piemontesi residenti nella regione da 10,15 o addirittura 20 anni, nell’assegnazione di una casa popolare, secondo lo slogan “Prima i piemontesi”, un motto quanto mai in contrasto con le norme della nostra Costituzione e con quelle di un’Unione Europea libera, democratica, aperta». prosegue Sarno.
«Per fare domanda di casa popolare, in Piemonte è necessario attestare l’assenza di proprietà immobiliari in Italia e all’estero. Con una nota del 14 novembre 2019, l’assessore regionale Caucino ha introdotto una distinzione tra italiani e stranieri – aggiunge la consigliera regionale Monica Canalis (Pd) – gli italiani possono esibire la sola dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, attestante l’assenza di proprietà immobiliari, mentre agli stranieri (cittadini extra Ue), viene chiesta un’apposita certificazione rilasciata dalle autorità dei Paesi d’origine e poi legalizzata, senza tener conto delle carenze e lentezze amministrative di questi Paesi e delle condizioni di scarso benessere dei richiedenti. Questa disparità di trattamento configura una discriminazione, a cui il Tribunale ha posto fine grazie a un ricorso dell’Asgi», conclude Canalis.