«L’isolamento non è solo fisico, è psicologico. Sei soltanto tu, il tuo pigiama, tutte le tue emozioni che circolano nella tua mente e se sei fortunato hai un cellulare con te. Ricordo che la prima notte avevo visto un aggiornamento sui dati, che fanno quasi “ridere” in confronto a quelli odierni: 300 ammalati, circa 15 morti, zero guariti. Ho provato una grandissima paura». E’ la voce di chi ha lottato e ce l’ha fatta: Francesco Maria Cusaro, ceranese di 58 anni, è una delle persone contagiate dal Covid-19, ricoverato al Maggiore domenica 8 marzo e dimesso mercoledì 18. Dirigente in un’azienda di ingegneria aerospaziale a Milano, sposato con un figlio, Cusaro nel tempo libero gira molto per Piemonte e Lombardia per raccontare le vicende dei dispersi in Russia, «sono nipote di un disperso», dice. E questo aspetto della sua vita è molto legato a ciò che ha vissuto.
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«Il 22 febbraio ero a Melzo con il coro Ana Melzo proprio per una serata di incontro e racconti, – dice – eravamo circa 150 e abbiamo aspettato insieme in una sala adiacente il teatro. Domenica 2 marzo ho iniziato ad accusare tosse secca e continua, avevo febbre, che oscillava tra i 37 e i 38 gradi e così il lunedì sono stato casa, ma nei giorni successivi ho lavorato, prendendo già tutte le dovute precauzioni ed evitando ogni contatto». Giovedì 6 marzo la telefonata di un membro del coro: aveva contratto il virus. «Ho fatto una lastra immediata e ne è emersa una bronchite, ho comunicato tutto all’Asl e mi sono messo in isolamento». Domenica 8 il tracollo: «Ho avuto forti crisi respiratorie e abbiamo chiamato il 118. Sono stato portato in una sala in attesa e una persona meravigliosa mi ha sottoposto a tutto ciò cui era necessario. Alle 23.30 sono arrivati due infermieri che mi hanno detto che ero positivo al Coronavirus. Mi hanno portato nel reparto di Malattie infettive e un angelo di infermiera mi ha raccontato tutta la situazione rendendomi consapevole che era davvero tosta, mi ha detto che di armi precise non ne avevano, che non era certa la reazione del mio corpo e che avrei sofferto».
Come si è sentito?
«Sono state delle sberle, ma che con il senno di poi mi sono servite. E’ stata un’esperienza devastante, che dovrà essere educativa per me prima di tutti, ma anche per gli altri e per questo ogni giorno su una pagina Facebook dedicata a Cerano scrivo qualcosa di mio, per raccontare. E’ una situazione che ti ferisce negli affetti: oltre a me a Melzo sono state contagiate altre sette persone e tre di queste sono morte. Il compagno di stanza a Novara, con cui ho legato molto, non sta molto bene e non lo sento da qualche giorno. C’è un aiuto, che arriva dal personale medico e paramedico, che è dato dalle loro espressioni positive, dai sorrisi che si potevano percepire. In quei giorni mi sono sentito novarese vero e sono loro, medici e personale, che sono la nostra Italia; – dice con la voce emozionata – tutti sono stati splendidi, chiunque sia entrato nella nostra stanza».
Ha avuto paura?
«Ho una moglie, un figlio di 28 anni, due cani meravigliosi, le sberle di cui dicevo prima mi hanno fatto paura. Le infermiere mi hanno detto che avrei dovuto metterci del mio. Ricordo molto bene un episodio: un giorno ho chiesto di poter mangiare a pranzo del risotto, che mi piace come tutti i novaresi doc. Non avevo fame però, perché questa malattia ti priva del desiderio di mangiare. Mi sono obbligato a mangiare quel riso, immaginandomi mia madre guardarmi stupita, perché mai ho fatto storie per pranzare io. In quel momento ho sentito la voglia di ripartire».
Come ha reagito quando si è reso conto di stare bene?
«E’ stato bello. In sala con frequenza arrivano gli infermieri per provarti la febbre, hai quel termometro e quando senti il suo suono, che ti entra in testa, hai paura a guardare, è una vera sfida. E poco per volta la febbre è scesa, la tosse è diminuita. Ma anche in questo caso è stato difficile, perché non è andata allo stesso modo per il mio compagno di stanza, e ti senti come in una burrasca e tu sei sulla nave salvo e i tuoi compagni stanno affogando».
Poi il ritorno a casa…
«Ci sono più aspetti di questo ritorno a casa, che è anche una partenza pensando all’ospedale. C’è chi ti chiama per chiederti come stai e chi per chiederti se lo hai infettato, ti senti un po’ untore. Anche sotto questo punto di vista in ospedale sono stati splendidi: sono stato sottoposto a un “interrogatorio” dettagliato che mi ha fatto ricordare tutto i miei spostamenti negli ultimi dieci giorni. E poi ricordo il volontario dell’ambulanza che mi ha accompagnato a casa e non mi ha aiutato nel portare i miei vestiti, parecchi, tutti ben avvolti in un sacco, azione legittima, ma che ricorderò».
Perché si deve stare a casa?
«Rispondo da Alpino; quando sei Alpino giuri di essere fedele al tuo Paese sempre, è un giuramento che tutti dovrebbero fare. Siamo in guerra e conta solo essere compatti, se un ufficiale dà disposizioni tu ti devi fidare totalmente. Fai parte di un esercito che ascolta. In questo forse le persone sono diseducate o non educate. La risposta deve essere compatta. E terza cosa: ora si deve essere solo italiani, non sentirsi di un partito o di un altro, è un atto vile e vigliacco».
C’è la luce infondo al tunnel?
«C’è già, ma la dobbiamo accendere. Il Covid crea problemi immediati che riguardano i contagi, ma anche problemi lunghi, il nostro sarà un vero Dopoguerra, se non cambia l’approccio culturale saremo morti. Dobbiamo passare dall’idea di concorrenza a quella di soldiarietà».
Una risposta
Un vero combattente. Bellissimo e straziante il racconto della sua tragica esperienza.