«Ci hanno fatto prendere una malattia mortale. Conservo ancora la mascherina di cotone ricavata dalle lenzuola, l’unica che ci ha dato la direzione dicendo che dovevamo tenere la stessa almeno per tre o quattro giorni. Così come i camici: dicevano di usare sempre lo stesso per risparmiare».
È il grido d’allarme di una dipendente del De Pagave, una delle case di riposo novaresi in cui le conseguenze dell’infezione da coronavirus sono state e sono ancora drammatiche. Che la situazione fosse esplosiva lo si era capito già dallo scorso 16 aprile quando Palazzo Cabrino aveva deciso di nominare Paolo Cortese, dirigente comunale, direttore ad interim della struttura fino al 31 luglio. Il De Pagave, infatti, è una Ipab (Istituto Pubblico di Assistenza e Beneficenza) retta da un consiglio di amministrazione di sette membri nominati dal Comune.
Cosa sia successo da fine marzo, dopo il rientro dall’ospedale dell’ospite che potrebbe aver portato il virus all’interno della struttura, al 16 aprile, data in cui il Comune ha preso in mano le redini della Rsa, non è dato saperlo. Di sicuro a qualcuno la situazione è sfuggita di mano: lo dicono i dati dei tamponi iniziati il 6 aprile: 49 contagi su 178 tra gli ospiti e 17 su 90 tra gli operatori sanitari (leggi qui). Lo testimonia il racconto del figlio di un’ospite, intervistato da La Voce lo scorso 21 aprile, il quale riferiva che l’istituto si era dimenticato di fargli sapere che la madre era risultata positiva al covid (leggi qui).
«Il contagio – dichiara la dipendente – è partito dal primo piano quando, a fine marzo, è rientrata dall’ospedale un’ospite ed è stata sistemata in una stanza singola solitamente non prevista nella nostra struttura: tutti ci siamo fatti delle domande e abbiamo chiesto che ci venissero forniti i dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) per poter gestire questa persona. I responsabili ci hanno detto che li avrebbero procurati; nel frattempo dicevano “Prendete un camice, lasciatelo lì e usate sempre quello”. Qualche collega si è ribellato e si è sentito rispondere di non fare polemica. Per giorni gli operatori hanno seguito l’ospite senza le protezioni e non c’era neanche un adeguato smaltimento dei rifiuti: solo un contenitore nella stanza e un sacco trasparente nel bagno adiacente dove venivano gettati i camici usati più volte».
«Dopo qualche giorno – continua la dipendente – la degente ha cominciato ad avere sintomi e l’Asl ha deciso di eseguire il tampone che è poi risultato positivo. Il 29 marzo è stata rimandata in ospedale e dopo pochi giorni è deceduta. In quel lasso di tempo alcuni operatori, che avevano seguito l’ospite, erano stati messi a fare turni anche agli altri piani della struttura e da qui il contagio si è esteso. Questo perché tutti hanno sottovalutato la situazione; se facevamo domande ai responsabili ci veniva detto di non fare terrorismo e allarmismo. Le mascherine che ci davano erano di cotone ricavate dalle lenzuola: gli fp2 ho dovuto comprarli a spese mie. Continuavano a ripeterci che non c’erano problemi, che potevamo stare tranquilli, che era sufficiente lavarsi le mani. Quando abbiamo fatto presente che gli ospiti erano ammassati in salone, la direzione ci ha risposto che lì non c’era il coronavirus e che tutti potevano stare bene in quel modo. Poi è scoppiata la bomba».
In tutta la provincia di Novara la situazione delle Rsa è risultata problematica: molte strutture hanno registrato un numero di contagi importante tanto che, a seguito delle segnalazioni di parenti, la Procura ha aperto un’indagine esplorativa, mentre lo scorso 6 aprile è stato dato il via alla campagna tamponi tuttora in corso.
«Il 2 aprile – dice ancora la lavoratrice – sono rimasti a casa due infermieri con sintomi che avevano assistito l’ospite senza i dpi e che, nel frattempo, erano stati vicini ad altri non autosufficienti. La campagna tamponi ha evidenziato che i positivi al contagio sono stati 49 al primo piano, 3 al secondo e una decina al terzo; questi ultimi, infatti, scendevano nel refettorio a pranzo e a cena e venivano a contatto con quelli del primo piano. Il mio ultimo turno l’ho fatto a metà aprile; al momento di rientrare, mi sono svegliata con la tosse secca e poi la febbre: ho fatto il tampone dopo pochi giorni: l’esito è stato positivo, una conferma di quello che già immaginavo. Una gestione irresponsabile: non c’è una guida, si lavora navigando a vista».
«Quando si tornerà alla normalità – conclude – ci sarà anche il problema del personale in esubero rispetto al numero degli ospiti: se devono licenziarci o darci la cassa integrazione, non possono farlo all’ultimo momento. Voci di corridoio dicono che la struttura chiuderà: non so se lo fanno per metterci paura, ma di sicuro la situazione economica è difficile».
Con questa situazione si è trovato a fare i conti il dirigente nominato dal Comune: «Io posso rispondere di quanto è avvenuto dopo il mio arrivo – commenta Cortese -. Il 17 aprile ho disposto che i pazienti covid venissero sistemati al primo piano e separati da quelli non covid, oltre all’acquisto dei dispositivi di protezione per il personale. Nei limiti del possibile, infermieri e oss sono stati divisi per piani, ma la carenza del personale ci ha imposto di riorganizzare il lavoro. Durante il proprio turno mi sembra impossibile che gli operatori siano passati da un piano all’altro, forse si tratta di oss o infermieri che hanno cambiato il turno con altri».
Riguardo ai tamponi, Cortese afferma: «Venerdì scorso è stata fatta la seconda tornata sugli ospiti e stiamo aspettando gli esiti. Al momento quelli positivi sono 48, mentre sul personale i test sono in programma per questa settimana».
Secondo il dirigente la difficoltà maggiore è rappresentata dalla mancanza di personale: «Quando costringi gli operatori a fare più turni in una situazione già tesa, tutto diventa complicato. Onore al merito a chi è rimasto al lavoro: la struttura è in piedi anche grazie a chi ha coperto i turni degli altri».
Su una possibile chiusura, Cortese non lascia spazio a dubbi: «Il De Pagave non chiuderà, nonostante ci sarà un effetto economico molto pesante: è dal 24 febbraio che non entrano nuovi ospiti e questa situazione durerà ancora per molto tempo».
«Fino a fine marzo nessuno tra gli ospiti e il personale presentava sintomi – dichiara il sindaco, Alessandro Canelli – ero in costante contatto con la struttura così come lo ero con le altre della città. Negli ultimi giorni di marzo mi ha chiamato il presidente del Cda insieme a un medico di base dicendomi che un’ospite dimessa dall’ospedale con tampone negativo aveva cominciato ad avere i sintomi del virus. Ho così contattato l’Asl che dopo qualche giorno ha effettuato il test poi risultato positivo. Il 16 aprile ho nominato Cortese che, con la collaborazione delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale, ndr) e della Asl, ha cominciato a sistemare le problematicità, è tutto documentato dalle relazioni. Tra il personale della struttura si sono verificate molte assenze; indispensabile, invece, è stato il lavoro dei medici di base che si sono spesi per arginare la situazione».
La condizione del De Pagave era stata posta anche all’attenzione del consiglio comunale lo scorso 6 maggio quando il gruppo del Pd aveva presentato una mozione con la quale invitava il sindaco a commissariare il Cda. Istanza che, però, non è nemmeno giunta in discussione ed è stata respinta con 21 voti contrari e 8 favorevoli. E per domani, mercoledì 20 maggio, è in programma una commissione proprio sulla situazione delle Rsa.
Una risposta
Speriamo che leggano l’articolo anche in Procura!