Fobia da Coronavirus: la comunità cinese chiede un incontro con il sindaco

«Non parlano, non parlano…». Così, nel celebre film di Pietro Germi “Sedotta e abbandonata”, il maresciallo dei carabinieri commentava allo sbigottito giovane appuntato veneto il perché alcuni abitanti di un paesino siciliano si fossero rifiutati di fornire al militari anche una sola e semplice informazione stradale. E in effetti, cercare di avvicinare qualche cittadino cinese per chiedergli quale siano le ripercussioni della fobia da Coronavirus nelle propria attività si è rivelata un’impresa ardua. Tanti sorrisi ma poi, allo spuntare di una penna e un taccuino, le bocche rimangono cucite.

Tra i pochi a concedersi c’è Ye Hai Yi del market Sole d’Oriente di via San Francesco d’Assisi: «Il lavoro è indubbiamente calato – ha ammesso – e non basta il fatto che la merce che offriamo sia variegata e gran parte della nostra clientela è composta da stranieri».

 

 

C’è aria di preoccupazione in giro?
«I primi a essere preoccupati siamo noi, che siamo in Italia da parecchi anni e che rispettiamo tutte le regole».

Il rapporto con la gente è cambiato?
«No. Abbiamo apprezzato gesti come quello del presidente Mattarella o del sindaco di Milano Sala che è andato a mangiare in un ristorante cinese. Sarebbe bello fare qualcosa di simile anche qui, ma Novara è piccola».

Però la comunità cinese, proverbialmente chiusa e impenetrabile, sembra si stia muovendo: «Diversi miei connazionali – ha spiegato Ye – si sono riuniti per ora in un gruppo su whatsapp, ma l’idea è quella di costituire un vero e proprio comitato che possa chiedere a breve un incontro con il sindaco e l’amministrazione comunale, con lo scopo di far conoscere alla gente la nostra situazione e magari avere la possibilità di darsi una mano reciprocamente».

A parlare è anche Zhu Shung Lai, gestore del bar La Basilica di via XX Settembre: «Un calo del lavoro? Probabilmente lo si è registrato nelle attività di ristorazione o negli alimentari, meno in altre. Io continua a lavorare con tranquillità. Se ho notato qualche episodio di discriminazione? Mi è capitato di notare qualche sguardo strano da parte di chi mi incrocia per strada, ma nulla più. Io tiro dritto».

Più difficile, dunque, la situazione dei ristoranti. Il coadiuvante del Long Jin di corso Torino, Francesco Liguori, al centro di un caso mediatico che ha suscitato interesse anche oltre i confini novaresi, racconta: «Dopo due settimane in cui abbiamo avuto un crollo del 50% sui coperti, a partire da martedì la frequentazione è tornata alla normalità. Da una parte credo sia dovuto al fatto che negli ultimi giorni i telegiornali hanno iniziato a dare notizie più rassicuranti, dando i numeri delle guarigioni dal virus. Dall’altra il nostro post su Facebook ha creato dibattito: tantissime persone ci hanno mostrato la loro solidarietà e molte di queste sono davvero venute a mangiare al ristorante, come avevano preannunciato sui social».

Lo scorso 1° febbraio sulla pagina Facebook del locale era infatti apparso un post, con la foto di un biscotto della fortuna spezzato, in cui Liguori si era sfogato: «2 settimane con un numero di ospiti ridotto all’osso, insufficiente a coprire le spese vive, quali gli stipendi dei miei sette collaboratori. L’amarezza di vedere come i media possano manipolare i comportamenti, veicolare il sentir comune, creare discriminazione e speculazione. Lunedì 27 gennaio, tutti a celebrare la giornata della memoria… da martedì 28, tutti razzisti come prima».

Il post è diventato subito virale (mai termine fu più pertinente…) e ha superato i 21.000 contatti e le 100 condivisioni. «Chi si è schierato dalla nostra parte – continua Liguori – e chi invece si è risentito a sentir parlare di razzismo. Qualcuno si è anche spinto a commenti disgustosi, come il “signore” che ci suggerisce di lavarci la faccia con limone e bicarbonato per togliere il giallo… Ma vorrei chiarire che ho parlato di razzismo come una forma di isteria collettiva molto simile a cui si assiste anche allo stadio, quando c’è chi lancia i “buuu buuu” ai giocatori di colore: fra chi segue il coro c’è chi è davvero razzista e chi invece nella vita di tutti i giorni non si sognerebbe mai di prendersela con lo straniero di turno, ma in quel momento lo fa. In questo caso credo che le responsablità principale per tutta questa paura (ingiustificata) sia imputabile ai media, a come hanno trattato l’argomento».

Cosa intende?
Per intere settimane i tg hanno aperto citando i numeri: 25,000 contagiati e 500 morti. Cifre che fanno paura, ma che se si riflette e si fa un semplice calcolo si scopre che la mortalità è praticamente del 2% dei contagiati. Se si va sul sito del Ministero della salute si scopre che i numeri dell’influenza in Italia sono molto più elevati: dal 27 gennaio al 2 febbraio sono risultate positive più di 1500 persone – spiega Liguori sito istituzionale alla mano – I media cinesi, invece, stanno trattando la cosa con un taglio totalmente diverso, senza suscitare panico e spiegando che per il Coronavirus sono morte persone immunodepresse, ovvero anziani o persone che avevano già altri problemi di salute. I numeri dell’infezione in Cina vanno visti anche in proporzione alla popolazione: basta dire che la sola città da cui è partita il focolaio è una metropoli con oltre 6 milioni di abitanti.

«Posso capire che la gente abbia paura, ma il problema non è il cibo, piuttosto il timore di entrare in contatto con chi è stato in Cina di recente – aggiunge la moglie Nanà Yu, titolare del ristorante aperto dal 1992 – Io non ci vado da 5 anni, i miei genitori ci sono stati un anno fa e nessuno del nostro staff ci è andato ultimamente. Inoltre la materia prima del nostro ristrorante è per l’80% prodotta in Italia e il riso che usiamo per il sushi arriva dalle campagne qui attorno a Novara».

di Luca Mattioli ed Elena Ferrara

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  1. Nelle mie uscite serali ho deciso di frequentare solo ristoranti cinesi. Invito i miei concittadini a fare altrettanto.

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Fobia da Coronavirus: la comunità cinese chiede un incontro con il sindaco

«Non parlano, non parlano…». Così, nel celebre film di Pietro Germi “Sedotta e abbandonata”, il maresciallo dei carabinieri commentava allo sbigottito giovane appuntato veneto il perché alcuni abitanti di un paesino siciliano si fossero rifiutati di fornire al militari anche una sola e semplice informazione stradale. E in effetti, cercare di avvicinare qualche cittadino cinese per chiedergli quale siano le ripercussioni della fobia da Coronavirus nelle propria attività si è rivelata un’impresa ardua. Tanti sorrisi ma poi, allo spuntare di una penna e un taccuino, le bocche rimangono cucite.

Tra i pochi a concedersi c’è Ye Hai Yi del market Sole d’Oriente di via San Francesco d’Assisi: «Il lavoro è indubbiamente calato – ha ammesso – e non basta il fatto che la merce che offriamo sia variegata e gran parte della nostra clientela è composta da stranieri».

 

 

C’è aria di preoccupazione in giro?
«I primi a essere preoccupati siamo noi, che siamo in Italia da parecchi anni e che rispettiamo tutte le regole».

Il rapporto con la gente è cambiato?
«No. Abbiamo apprezzato gesti come quello del presidente Mattarella o del sindaco di Milano Sala che è andato a mangiare in un ristorante cinese. Sarebbe bello fare qualcosa di simile anche qui, ma Novara è piccola».

Però la comunità cinese, proverbialmente chiusa e impenetrabile, sembra si stia muovendo: «Diversi miei connazionali – ha spiegato Ye – si sono riuniti per ora in un gruppo su whatsapp, ma l’idea è quella di costituire un vero e proprio comitato che possa chiedere a breve un incontro con il sindaco e l’amministrazione comunale, con lo scopo di far conoscere alla gente la nostra situazione e magari avere la possibilità di darsi una mano reciprocamente».

A parlare è anche Zhu Shung Lai, gestore del bar La Basilica di via XX Settembre: «Un calo del lavoro? Probabilmente lo si è registrato nelle attività di ristorazione o negli alimentari, meno in altre. Io continua a lavorare con tranquillità. Se ho notato qualche episodio di discriminazione? Mi è capitato di notare qualche sguardo strano da parte di chi mi incrocia per strada, ma nulla più. Io tiro dritto».

Più difficile, dunque, la situazione dei ristoranti. Il coadiuvante del Long Jin di corso Torino, Francesco Liguori, al centro di un caso mediatico che ha suscitato interesse anche oltre i confini novaresi, racconta: «Dopo due settimane in cui abbiamo avuto un crollo del 50% sui coperti, a partire da martedì la frequentazione è tornata alla normalità. Da una parte credo sia dovuto al fatto che negli ultimi giorni i telegiornali hanno iniziato a dare notizie più rassicuranti, dando i numeri delle guarigioni dal virus. Dall’altra il nostro post su Facebook ha creato dibattito: tantissime persone ci hanno mostrato la loro solidarietà e molte di queste sono davvero venute a mangiare al ristorante, come avevano preannunciato sui social».

Lo scorso 1° febbraio sulla pagina Facebook del locale era infatti apparso un post, con la foto di un biscotto della fortuna spezzato, in cui Liguori si era sfogato: «2 settimane con un numero di ospiti ridotto all’osso, insufficiente a coprire le spese vive, quali gli stipendi dei miei sette collaboratori. L’amarezza di vedere come i media possano manipolare i comportamenti, veicolare il sentir comune, creare discriminazione e speculazione. Lunedì 27 gennaio, tutti a celebrare la giornata della memoria… da martedì 28, tutti razzisti come prima».

Il post è diventato subito virale (mai termine fu più pertinente…) e ha superato i 21.000 contatti e le 100 condivisioni. «Chi si è schierato dalla nostra parte – continua Liguori – e chi invece si è risentito a sentir parlare di razzismo. Qualcuno si è anche spinto a commenti disgustosi, come il “signore” che ci suggerisce di lavarci la faccia con limone e bicarbonato per togliere il giallo… Ma vorrei chiarire che ho parlato di razzismo come una forma di isteria collettiva molto simile a cui si assiste anche allo stadio, quando c’è chi lancia i “buuu buuu” ai giocatori di colore: fra chi segue il coro c’è chi è davvero razzista e chi invece nella vita di tutti i giorni non si sognerebbe mai di prendersela con lo straniero di turno, ma in quel momento lo fa. In questo caso credo che le responsablità principale per tutta questa paura (ingiustificata) sia imputabile ai media, a come hanno trattato l’argomento».

Cosa intende?
Per intere settimane i tg hanno aperto citando i numeri: 25,000 contagiati e 500 morti. Cifre che fanno paura, ma che se si riflette e si fa un semplice calcolo si scopre che la mortalità è praticamente del 2% dei contagiati. Se si va sul sito del Ministero della salute si scopre che i numeri dell’influenza in Italia sono molto più elevati: dal 27 gennaio al 2 febbraio sono risultate positive più di 1500 persone – spiega Liguori sito istituzionale alla mano – I media cinesi, invece, stanno trattando la cosa con un taglio totalmente diverso, senza suscitare panico e spiegando che per il Coronavirus sono morte persone immunodepresse, ovvero anziani o persone che avevano già altri problemi di salute. I numeri dell’infezione in Cina vanno visti anche in proporzione alla popolazione: basta dire che la sola città da cui è partita il focolaio è una metropoli con oltre 6 milioni di abitanti.

«Posso capire che la gente abbia paura, ma il problema non è il cibo, piuttosto il timore di entrare in contatto con chi è stato in Cina di recente – aggiunge la moglie Nanà Yu, titolare del ristorante aperto dal 1992 – Io non ci vado da 5 anni, i miei genitori ci sono stati un anno fa e nessuno del nostro staff ci è andato ultimamente. Inoltre la materia prima del nostro ristrorante è per l’80% prodotta in Italia e il riso che usiamo per il sushi arriva dalle campagne qui attorno a Novara».

di Luca Mattioli ed Elena Ferrara

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