Il mestiere del fotoreporter è un mestiere bastardo, adrenalinico quanto vuoi, ma pur sempre infame. Da sempre, grazie a loro, le guerre vengono documentate per quelle che sono: nessun filtro, solo la verità, nuda e cruda. E questa verità è sempre pericolosa, scomoda, fa sempre male. Ma tant’è.
Carlo Cozzoli, novarese classe 1993, dopo la prima esperienza come fotoreporter di guerra in Libano, non ci ha pensato due volte a partire per l’Ucraina. «Mi trovo a Vinnytsia, vicino Kiev e, ieri sera, hanno colpito la torre televisiva della TV qui a pochi passi dal mio albergo».
La voce di Cozzoli arriva pulita, nessun disturbo, è in videochiamata direttamente dalla sua stanza. «Sono qui in Ucraina da tre settimane, sono partito per cercare di narrare la situazione nelle campagne, le zone meno battute dai giornalisti. Ho visto fiumi di profughi, ma ho potuto documentare da vicino il coraggio e la forza di chi ha deciso di stare qui a difendere la propria terra e ce ne sono tanti – racconta il fotoreporter – ho documentato interi paesi letteralmente barricati pronti a ricevere l’esercito nemico: strade interrotte da grossi tronchi di alberi usati a mo’ di barriere. Hanno una forza indescrivibile questi ucraini e sono tutti coesi: ho visto scuole chiuse per permettere ai bambini di aiutare l’esercito a cucire i teloni dei carri armati, ho visto ragazzini con in mano i fucili senza paura in giro per le strade, li ho visto aiutarsi a vicenda a rimettere in piedi le case tirate giù dalle bombe: insomma ho respirato un’aria di estremo coraggio e attaccamento alla propria terra. I target sono stati da subito gli aeroporti e le antenne TV, li hanno rasi al suolo per interrompere comunicazioni, possibilità di spostarsi e rifugio. Nei prossimi giorni il mio intento è quello di spostarmi a Odessa, voglio documentare la situazione di una città nevralgica a livello marittimo. Ovviamente – continua Cozzoli – spostarsi non è così facile: i giornalisti sono visti come potenziali infiltrati, dunque bisogna ottenere diversi permessi per qualsiasi tipo di movimento».
Le domande che vorremmo fargli sono tante, si accavallano, ma il suono che arriva direttamente dalla finestra della stanza lascia poco spazio alla fantasia: è la sirena d’allarme. «Devo spostarmi al piano di sotto, quando c’è la sirena non si può stare ai piani alti, bisogna mettersi al riparo». Cozzoli saluta, negli occhi non c’è traccia di paura, prende la macchina fotografica, monta l’obbiettivo ed esce dalla stanza dell’albergo. La videochiamata si interrompe, poco prima del saluto, il fotoreporter fa in tempo a fare un sorriso, un sorriso di speranza e coraggio: la narrazione di una guerra è anche questa, è il coraggio di donne e uomini pronti a tutto pur di riportare a noi la voce di un conflitto che, altrimenti, rimarrebbe soffocata sotto cumoli di macerie.
ph Carlo Cozzoli