A un mese esatto dalla tragedia della funivia, il vescovo di Novara ha celebrato questa mattina, 23 giugno, in vetta al Mottarone, nel piazzale della stazione dell’impianto di risalita, una messa in memoria delle 14 vittime. Nella sua omelia, monsignor Franco Giulio Brambilla, ha parlato di «grave incidente che ha toccato nel profondo tutti noi, un’angoscia e un dolore indicibili. Questo momento è per chi crede un tempo di preghiera, di affidamento, di richiesta di perdono, per la troppa superficialità con cui talvolta trattiamo la vita. Anche per chi non crede è comunque un gesto per lasciar emergere i sentimenti di condivisione e poter ripartire con grande senso etico e maggior impegno nel proprio cammino».
Il vescovo ha poi proseguito dicendo: «La prima lettura, tratta dal Libro di Isaia, ci presenta una scena, in cui proprio sul monte Sion, a Gerusalemme, tutti i popoli convergeranno verso il Signore. Il monte è il luogo dell’incontro con Dio e in ogni tempo le persone sono salite sul monte per uscire dal lavoro usato e dalla vita di ogni giorno e donarsi tempo e spazio per rigenerare se stessi e incontrare Dio. Anche il Mottarone, un monte dal quale si vedono, in uno spettacolo indimenticabile, fino a sette laghi, era la mèta di queste famiglie nel primo giorno di riapertura dopo il lungo periodo di lockdown, alla ricerca di un momento di serenità e di pace. Avevano scelto un posto in alto per guardare il mondo con l’orizzonte della speranza, per togliere il velo che da oltre un anno gravava sui nostri volti e che ci aveva costretto a vivere segregati nelle nostre case. er questo sentiamo come una grande tragedia che questa occasione di distensione e di incontro, di fraternità e di condivisione, si sia trasformata in un abisso di morte, per l’incuria e l’irresponsabilità di chi ha messo a repentaglio vite umane per facili guadagni. È un pensiero che, oltre le responsabilità penali di competenza della magistratura, ci stringe il cuore, perché ci richiama tutti alla responsabilità morale di chi sovrintende alle regole di sicurezza per i mezzi di collegamento e di ogni altro strumento che ha a che fare con la vita. Non si possono mandare allo sbaraglio persone ignare alla ricerca di un momento di serenità, barattando la vita con ogni altro tipo di interesse o di superficialità professionale o amministrativa. Mettiamo, invece, in opera le condizioni per un’ospitalità autentica, accogliente, come è nella migliore tradizione della gente della nostra terra. I molti che lavorano onestamente per rendere la città di Stresa, con il suo comprensorio, la perla del Lago Maggiore, non possono essere danneggiati da pochi senza scrupoli».
«Eppure noi sentiamo che le nostre parole chiedono uno scatto etico e non bastano a placare il nostro cuore e ad aprire un orizzonte di speranza. Neppure servono a dare consolazione alle famiglie delle vittime – ha proseguito Btambilla -. Quando chiamiamo così – vittime – i morti del Mottarone, abbiamo già perso il loro volto singolare, e non possiamo dire al piccolo Eitan, perché non ci sono più il suo papà, la sua mamma e il suo fratellino. Davanti al loro volto e al loro nome la nostra parola si spegne in gola. Vorremo poter asciugare le lacrime, ma non ne siamo capaci. Sperimentiamo l’impotenza della nostra parola e dei nostri discorsi. Vorremmo almeno nel silenzio dire i nomi di coloro che sono stati strappati al nostro sguardo: Amit Biran e Tal Peleg (papà e mamma) con il piccolo Tom (fratello di Eitan); Barbara Cohen Konisky e Itshak Cohen (i nonni); Serena Cosentino e Mohammadreza Shahaisavandi (fidanzati); Silvia Malnati e Alessandro Merlo (fidanzati); Roberta Pistolato e Angelo Vito Gasparro (sposi); Vittorio Zorloni e Elisabetta Persanini (mamma e papà) con il piccolo Mattia».
«Il Vangelo di Giovanni, con il racconto della risurrezione di Lazzaro, ci indica forse uno spiraglio; Gesù però non parla, ma fa un gesto eloquente, si fa prossimo e piange con noi e come noi – ha proseguito il vescovo -. Qui la nostra parola si ferma. Resta solo il pianto di Gesù che assume le nostre lacrime, le mette nel suo calice d’amore, e le attraversa tutte, perché nessuno mai le possa dimenticare. Se le nostre lacrime rimangono, esse sono asciugate dalla sua mano pietosa, perché nessuno più dimentichi quanto dolore devastante la nostra incoscienza può provocare sulla faccia della terra. Certo anche noi, come alcuni dei Giudei, possiamo dire protestando: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?». Risposta non c’è: resta il silenzio, perché ciascuno di noi diventi un po’ più responsabile di fronte al legame che tutti ci tiene uniti. Indissolubilmente».