Nell’anno in cui si ricordano i sette secoli dalla morte di Dante Alighieri il sommo poeta poteva trovare spazio in un’omelia pasquale? Sì, e a ricordarlo è stato questa mattina il vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla, che in Duomo, nel corso della solenne celebrazione eucaristica, è partito da alcuni versi del canto XXV del Paradiso per definire il concetto di “speranza”. Ma qui monsignor Brambilla, in una cattedrale molto partecipata dai fedeli – seppur nel rispetto dei protocolli sanitari del momento – e dopo aver rivolto il suo particolare saluto anche a tutti i novaresi all’estero che proprio grazie alla ripresa in streaming della funzione curata dall’associazione hanno avuto modo di essere virtualmente presenti, ha voluto offrire una precisazione: Dante, per questo particolare passo nella definizione della “speranza” contenuto nel suo poema si sarebbe ispirato a un illustre novarese come Pier Lombardo: «La speranza è un attendere certo al compimento della nostra vita». Perché, in questo mondo terreno, «ci proponiamo di vivere un poco di felicità, ma che, riprendendo appunto Dante, «si tratta di un’attesa operosa che è il gioco, l’inteccio tra la grazia di Dio e l’agire, l’operare dell’uomo». Concetto espresso da Pier Lombardo nei in uno dei suoi più celebri scritti come il “Summa Sententiarum”.
Del resto, fin dai tempi dei latini si distingueva tra il “fare” e l’ “agire”. Ma dentro il “fare” (o “facere”), «esiste al suo interno un’altra operazione più profonda, così come l’agire è mosso dalla grazia di Dio. All’interno di questo è già presente la beatitudine. La felicità terrena? E’ solo un anticipo che va vissuto. Quando oggi siamo felici dobbiamo capire che non vuol dire tutto. La nostra operosità è un dono divino che viene fuori e consente di accendere la speranza».