Esattamente una settimana fa, il pomeriggio di mercoledì 25 marzo, in un letto della rianimazione cessava di battere il cuore di Alexander Roa, 33 anni appena, finora la più giovane vittima novarese del “nemico invisibile”.
«Il virus uccide due volte perché ci tiene lontani» dice con la voce strozzata dalle lacrime Giuseppe, il papà della compagna di Alex. Lontani nella malattia e per molti, purtroppo, lontani anche nella morte.
Soli. I malati con il peso della sofferenza, i familiari con quello dell’impotenza. Divisi da un muro invalicabile. Il virus si porta via anche questo, si prende anche la compassione, nel senso latino del termine.
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«Ad Alex volevo bene come fosse mio figlio, era un ragazzo speciale che si faceva amare da tutti. L’ultima volta che io l’ho visto era domenica 8 marzo. Certo, era preoccupato come tutti, di potersi ammalare; preoccupato soprattutto di poter eventualmente contagiare mia figlia e mia nipote, tanto che aveva detto che, precauzionalmente, si sarebbe trasferito a casa di sua mamma, che era vuota».
E così ha fatto. Poi domenica 15 marzo, mentre era sul lavoro, il primo malessere e la decisione di andare a casa.
«Lo chiamavamo più volte al giorno, era da solo con la febbre e ci preoccupavamo anche se era lui a tranquillizzarci». Poi, pochi giorni dopo l’improvviso aggravarsi, l’arrivo del medico, dell’ambulanza e poi il silenzio e l’angoscia di non sapere neppure dove fosse, fino alla conferma che sì, era ricoverato, e al colloquio con un medico.
Qualche giorno dopo il trasferimento in rianimazione. «Nell’ultimo messaggio che mi ha inviato prima di essere portato in terapia intensiva mi ha scritto “stai tranquillo nonno (mi chiamava così). Ci sentiamo tra qualche giorno”».
Ma Alex non l’hanno più sentito. «Mercoledì a mezzogiorno ci hanno chiamato dicendo che le sue condizioni si erano aggravate. Alle 16 ci hanno detto che non ce l’aveva fatta».
E’ un racconto scandito dai singhiozzi, lungo e sofferto, intervallato da pause che cadono, tra una frase e l’altra, pesanti come macigni. E’ un dolore nel quale non si può entrare. Neanche in punta di piedi.
«Prima la solitudine con la febbre, perché non aveva permesso che mia figlia andasse da lui. Poi la solitudine in ospedale». «Vorrei che qualcuno mi dicesse come si fa a superare questo momento, perché a me adesso vien solo da impazzire. Stiamo soffrendo tutti. Non riesco a dire: facciamoci forza; magari col tempo ce la faremo, come tutti, ma adesso è dura, dura. Adesso è solo il tempo delle lacrime». E dei ricordi. E della consapevolezza che queste ferite, come quelle di una perdita improvvisa, sono le più lente a rimarginarsi.
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