«Non chiamateci eroi, abbiamo fatto il nostro lavoro»

«Non abbiamo fatto nulla di straordinario rispetto a quello che facciamo di solito: per favore, non usi la parola “eroe”.  Abbiamo avuto in più l’impegno fisico, per le protezioni, e psicologico, per la paura di poter infettare altre persone a casa, che nulla c’entrano con il nostro lavoro».

Oggi 12 maggio, si celebra la “Giornata internazionale dell’infermiere” e mai come quest’anno questa figura professionale, molto spesso in secondo piano, è balzata alla ribalta delle cronache. Una  professione che, ai tempi del Covid 19, si è modificata portando in primo piano anche la necessità di portare ai pazienti, accanto all’assistenza sanitaria, anche quella psicologica; un’attenzione in più verso persone, piegate dal virus e completamente sole, senza il supporto e la vicinanza di un parente, di un amico.

 

 

Maria (nome di fantasia) è una giovane infermiera che il virus lo ha incontrato, e non solo in reparto tra i “suoi” pazienti, ma anche sulla sua strada.

«Mi sono ammalata, quando tutto si è risolto senza ricovero e grosse complicazioni e sono rientrata al lavoro, mi sono trovata in un reparto che mi sembrava di non aver mai visto prima…. Con la bardatura non si riusciva a bere o ad andare in bagno. Non nascondo che quando tornavo a casa piangevo. Piangevo per tutte le persone malate, piangevo per l’impotenza davanti al virus; avrei voluto sorridere per portare un po’ di conforto a chi soffriva ma non riuscivo. Poi, piano piano ce l’ho fatta».

E ha fatto anche di più Maria perché ha stretto un rapporto speciale con un “nonno” ultraottantenne. «Quando sono rientrata al lavoro lui era già ricoverato. Stava molto male ma era lucido; si temeva per il suo stato di salute e invece…qualche giorno fa è stato dimesso e prima di uscire mi ha dato un appuntamento. “Ci vediamo al parco dei bambini” mi ha detto, “così ci salutiamo fuori da qui”».

E per Pasqua ha comprato e distribuito degli ovetti di cioccolato; un gesto semplice ma carico di significato per chi si è trovato ad affrontare da solo una battaglia così grande. «Qualcuno mi ha detto che quello era il più bel regalo di Pasqua che avesse mai ricevuto».

Piccoli gesti e piccole cose che diventano grandi gesti e grandi cose di fronte all’incertezza, all’ignoto, alla paura.  In questi mesi il lavoro di chi assiste i malati Covid si è gioco forza intrecciato con la loro vita privata.

«Abbiamo dovuto confrontarci con un altro tipo di sofferenza – spiega la dottoressa  Cristina Torgano, responsabile della Direzione delle professioni sanitarie – Vedere tante persone, molte delle quali anziane, morire senza la vicinanza dei familiari fa molto male: in una società come la nostra, dove le relazioni interpersonali hanno un ruolo molto importante, dove abbiamo bisogno l’uno dell’altro, abbiamo dovuto imparare a convivere con le nostre emozioni senza poterle condividere. Abbiamo dovuto fare un passo indietro essere magari meno “tecnologici” ma più attenti all’aspetto umano, ad approcciarci al paziente con più attenzione all’aspetto comunicativo. In tempo di Coronavirus è stato necessario fornire un’assistenza emotiva e spero che questo approccio possa essere ormai considerato acquisito e fornito anche in futuro».

 

 

 

 

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«Non chiamateci eroi, abbiamo fatto il nostro lavoro»

«Non abbiamo fatto nulla di straordinario rispetto a quello che facciamo di solito: per favore, non usi la parola “eroe”.  Abbiamo avuto in più l’impegno fisico, per le protezioni, e psicologico, per la paura di poter infettare altre persone a casa, che nulla c’entrano con il nostro lavoro».

Oggi 12 maggio, si celebra la “Giornata internazionale dell’infermiere” e mai come quest’anno questa figura professionale, molto spesso in secondo piano, è balzata alla ribalta delle cronache. Una  professione che, ai tempi del Covid 19, si è modificata portando in primo piano anche la necessità di portare ai pazienti, accanto all’assistenza sanitaria, anche quella psicologica; un’attenzione in più verso persone, piegate dal virus e completamente sole, senza il supporto e la vicinanza di un parente, di un amico.

 

 

Maria (nome di fantasia) è una giovane infermiera che il virus lo ha incontrato, e non solo in reparto tra i “suoi” pazienti, ma anche sulla sua strada.

«Mi sono ammalata, quando tutto si è risolto senza ricovero e grosse complicazioni e sono rientrata al lavoro, mi sono trovata in un reparto che mi sembrava di non aver mai visto prima…. Con la bardatura non si riusciva a bere o ad andare in bagno. Non nascondo che quando tornavo a casa piangevo. Piangevo per tutte le persone malate, piangevo per l’impotenza davanti al virus; avrei voluto sorridere per portare un po’ di conforto a chi soffriva ma non riuscivo. Poi, piano piano ce l’ho fatta».

E ha fatto anche di più Maria perché ha stretto un rapporto speciale con un “nonno” ultraottantenne. «Quando sono rientrata al lavoro lui era già ricoverato. Stava molto male ma era lucido; si temeva per il suo stato di salute e invece…qualche giorno fa è stato dimesso e prima di uscire mi ha dato un appuntamento. “Ci vediamo al parco dei bambini” mi ha detto, “così ci salutiamo fuori da qui”».

E per Pasqua ha comprato e distribuito degli ovetti di cioccolato; un gesto semplice ma carico di significato per chi si è trovato ad affrontare da solo una battaglia così grande. «Qualcuno mi ha detto che quello era il più bel regalo di Pasqua che avesse mai ricevuto».

Piccoli gesti e piccole cose che diventano grandi gesti e grandi cose di fronte all’incertezza, all’ignoto, alla paura.  In questi mesi il lavoro di chi assiste i malati Covid si è gioco forza intrecciato con la loro vita privata.

«Abbiamo dovuto confrontarci con un altro tipo di sofferenza – spiega la dottoressa  Cristina Torgano, responsabile della Direzione delle professioni sanitarie – Vedere tante persone, molte delle quali anziane, morire senza la vicinanza dei familiari fa molto male: in una società come la nostra, dove le relazioni interpersonali hanno un ruolo molto importante, dove abbiamo bisogno l’uno dell’altro, abbiamo dovuto imparare a convivere con le nostre emozioni senza poterle condividere. Abbiamo dovuto fare un passo indietro essere magari meno “tecnologici” ma più attenti all’aspetto umano, ad approcciarci al paziente con più attenzione all’aspetto comunicativo. In tempo di Coronavirus è stato necessario fornire un’assistenza emotiva e spero che questo approccio possa essere ormai considerato acquisito e fornito anche in futuro».

 

 

 

 

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